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Tante idee per vivere al meglio le tue vacanze

I germogli della memoria

A cento anni dalla tragedia della Diga del Gleno, per non dimenticare. Il dovere del ricordo, la speranza di un ciliegio

Salire alla Diga del Gleno, farvi ritorno, nell’anno in cui cadono i cento anni dal mattino del disastro, avvenuto alle 7.15 del 1 Dicembre 1923. Raggiungere questo luogo straordinario, in cui – come forse in nessun’altra parte delle nostre valli – bellezza e dolore si intrecciano a vicenda. Si abbracciano e si illuminano.

Un frammento unico nel mosaico delle Orobie. Che fin da bambini abbiamo ricevuto in consegna, fra le mura di casa o fra i banchi di scuola, nel gomitolo dei racconti che avvolgono l’evento della tragedia nella sua nudità̀. Così sono diventati parte di noi gli operai della valle che dal cantiere su al Gleno tornavano inquieti, preoccupati per l’andamento dei lavori; le donne con le gerle, impegnate nel trasporto a monte dei materiali di costruzione; le prime crepe e i rigagnoli d’acqua sulla pelle del muro, mentre ancora saliva; le colpevoli omissioni nella catena dei controlli. Una lezione della storia, questa, che in Italia non abbiamo ancora imparato, dal Vajont al Ponte Morandi, alla superficialità̀ con cui ancora oggi derubrichiamo da molti progetti l’analisi degli effetti che avranno sugli equilibri sottili della natura o del clima. Ancora, la fretta di finire, di afferrare il profitto; quel boato nel primo mattino e la folle corsa a balzi del guardiano Morzenti; il sagrestano di Bueggio, strappato via dal vento insieme al campanile; il paese di Dezzo, sommerso due volte; l’acqua e le fiamme che quel giorno si alzarono insieme dalle centrali; la piena che travolse la Valle Camonica fino a gonfiare il Lago d’Iseo. Infine, la delusione per gli esiti della giustizia, mai come allora così tristemente terrena. Tutto questo fa parte di noi, è vivo persino negli occhi di noi che non lo abbiamo vissuto dal vivo, ma che già̀ dall’infanzia abbiamo appreso in qualche modo come la costruzione della nostra collettiva identità̀ scalvina, comunitaria, debba passare per questo vuoto, per questa ferita. Misurarsi con questo squarcio o questo taglio, come nei quadri di Fontana.

Ed è così che torniamo ogni volta. Ma forse, salire alla Diga, specie per coloro che abitando da queste parti percorrono più̀ volte nella vita, o nello stesso anno, quei medesimi sentieri, non è solo un omaggio alla memoria di un passato statico, congelato. Già Nietzsche, pensatore viandante frequentatore delle montagne fra Svizzera e Italia, mise in guardia dai rischi della storia, quando ci rende incapaci di uno sguardo in avanti, generativo del nuovo.

Così salire quassù è più del ricordo. È forse per tutti, intimamente, il tentativo di elaborare quel lutto, di attraversarlo per uscirne tenendo tra le mani un germoglio. E, azzardo, non solo l’elaborazione di quello specifico lutto, ma anche dei nostri lutti personali, le volte in cui nel nostro personale cammino abbiamo conosciuto una fine, una caduta, una ferita. Un’incrinatura della speranza e del desiderio.

È possibile visionare e scaricare l’opuscolo con tutti gli eventi per il centenario >QUI<

Ecco, a tutti noi parla la Diga. Non solo del passato, ma dell’oggi. O di come un passato possa anche oggi farsi futuro.

Quante volte siamo saliti alla Diga per l’esigenza di dare ordine ai nostri pensieri? Magari camminando fuori dagli orari canonici, fuori dai giorni di grande afflusso. Magari di primo mattino, quando ancora il silenzio a Pianezza avvolge la piazza e puoi sentire l’acqua che gorgoglia dentro la fontana. O piuttosto alla sera, quando ritorni che già sono accese le luci dentro le case e i lampioni giù per la strada. Oppure passando per il Ponte del Gleno, sopra Bueggio, scegliendo di sostare per qualche minuto in una delle sue piazzole di verde o sopra un masso. Soli, in compagnia del torrente. O, infine, salendo da Nona: sentiero meno battuto, ma che vi invito a scoprire. Non solo per la bellezza di Nona nella sua discrezione e contemporaneamente nel vociare dei suoi abitanti, seduti ai tavolini del bar e della bottega che insieme stanno provando a salvare. Ma per come la stradina ti porta in alto su per i prati, a guadagnare la vista della Presolana e del Pizzo Camino. E poi la grazia del bosco, che quasi prepara alla vista del Pizzo di Pianezza, maestoso da qui, e poi della valle del Gleno. Con lo sguardo che risale oltre la Diga, verso i passi di Belviso e Bondione, per sentire che c’è sempre un oltre verso cui tendere ancora. Perché anche dove tutto sembra finire, si trovano passaggi per altre valli, altre genti, altre montagne, altri orizzonti. Ecco, se già siete stati alla Diga, forse avrete notato che davanti al troncone principale sopravvissuto al crollo del muro, si trova oggi un ciliegio. Proprio al centro, incredibilmente maestoso. Ogni volta che passo di lì, da ormai molti anni a questa parte, mi soffermo a pensare alla potenza di questo gesto della natura, alla sua parola: come possiamo trarre vita dalla morte? Come possiamo sbocciare laddove abbiamo conosciuto una fine? Come possiamo fare tesoro di quella memoria, con quale parola nel cuore fare ritorno? Forse questa parola è responsabilità̀. Imparare a prenderci cura.

Cento anni dopo il disastro, attraversiamo un tempo che più̀ che mai ci invita a farci carico l’uno dell’altro. Compreso l’altro che è dentro di noi. O l’altro di quella natura alla quale apparteniamo e di cui ci ostiniamo a sentirci padroni. Penso al finale di quel bel libro di Hervé Barmasse, La montagna dentro: «Quasi mi verrebbe voglia (…) di starmene quassù a vedere come sarà il futuro. Ma (…) il vero coraggio l’alpinista lo dimostra (…) quando scende dal- le montagne e affronta i problemi comuni per cercare di cambiare le cose (…)».

Anche noi, per come possiamo, saliamo alla Diga per fare ritorno, lì dove siamo, per dare forza al ciliegio. Al germoglio che passa per ciascuno di noi.

Articolo scritto da Alessandro Romelli per VALSeriana & Scalve Magazine – estate 2023