Blog

Tante idee per vivere al meglio le tue vacanze

Il Sapore di un abbraccio

La polenta, oro della ValSeriana. Viaggio nella storia di un piatto che qui ha piantato radici, scrivendo il passato e indicando il futuro.

«C’erano grandi campi coltivati con radici, una specie di fava e una specie di grano chiamato mahiz».
Era il 5 novembre del 1492 e Cristoforo Colombo descriveva con queste parole, sul suo diario di viaggio, ciò che i suoi occhi vedevano del nuovo mondo, di quelle misteriose terre che sapeva di aver raggiunto ma non sapeva di aver scoperto. A distanza di oltre cinque secoli, quel «mahiz» lo conosciamo bene anche noi. È una delle coltivazioni più diffuse, una delle più facili da riconoscere, un pezzo della nostra storia. Il grano turco (così chiamato proprio per le sue origini esotiche) non ci ha messo molto a ridisegnare i profili rurali del Nord Italia e a stravolgerne le abitudini alimentari.

Le Magnifiche Virtù Della Polenta

L’ARRIVO DEL MAHIZ IN VALSERIANA

Giunto in Europa nel Cinquecento e inizialmente coltivato soprattutto nei giardini e negli orti botanici, è solo tra il Seicento e il Settecento che il grano turco si prese le campagne. Comprese quelle bergamasche. Probabilmente il primo ad arrivare nei nostri campi fu il Mais Spinato.
Filippo Lussana pubblicò uno studio che certificava la coltivazione a Gandino in località Clusven nel 1632, nei terreni della famiglia Giovanelli, ricchi commercianti di panni lana. Nel 1617 il mais era arrivato nei territori legati a Venezia, e in particolare nel Bellunese, nelle terre del nobile Benedetto Miari. Coevi di Miari erano l’allora Patriarca di Venezia, il barone Federico Maria Giovannelli, e i baroni Benedetto e Andrea Giovanelli, Procuratori della Repubblica veneta, tutti originari di Gandino.

Mais Spinato Di Gandino, ph. Marco Presti

In entrambi i casi si tratta di mais con i chicchi dalla forma appuntita: nel Bellunese si parla di “Sponcio”, a Gandino di “Spinato”. Si pensi che Matteo Bonafus, direttore del Giardino Reale d’Agricoltura di Torino, pubblicò nel 1833 una schedatura delle varietà di mais che ha fatto da riferimento per tutti gli studiosi. Nel 1842, in una specifica integrazione, aggiunse proprio il mais “rostrato” o “Spinato”, utilizzando la dicitura francese di “Mais a Bec”, fra cui si annovera anche l’altra eccellenza della ValSeriana: il Rostrato Rosso di Rovetta.

LA POLENTA, AMATA FIGLIA DEL MAIS

«Rispetto agli altri cereali, il mais ha una resa eccezionale: poco lavoro nei campi e tanto da mangiare. Per questo la sua diffusione, anche in territori come la ValSeriana, più montani, fu rapidissima», spiega Giampiero Valoti, studioso, esperto di alimentazione bergamasca e autore del libro Polenta e pica sö. Alimentazione contadina nelle valli bergamasche (Edizioni Junior, 1994). La Bergamasca, dunque, fece da culla alla diffusione del mais in Italia e non può quindi stupire che una delle sue più note e amate “figlie”, la polenta, abbia proprio in Bergamasca la sua patria. Una pietanza che abbina alla semplicità della preparazione (farina, acqua, sale e tanto olio di gomito) la ricchezza del suo trascorso, della sua storia, ben rappresentata da quei granelli color oro che richiamano forzieri ricolmi di pepite. Al contrario, però, la polenta è stato a lungo il piatto dei poveri, dei lavoratori. Solo nella seconda metà del Novecento è divenuta la pietanza emblema della famiglia, del giorno della festa. Una pietanza che proprio in ValSeriana ha conservato i suoi sapori più antichi e ancestrali.

È in queste terre tagliate dal fiume Serio che i mais più antichi hanno infatti resistito. Sia per questioni geografiche (un terreno non propriamente adatto alle coltivazioni massive), sia per questioni sociali (i seriani anche nell’antichità vivevano di commercio, artigianato e industria, non di agricoltura). Qui il grano si coltivava principalmente per la famiglia, per riempire la propria pancia senza fini di guadagno. Ed è per questo che in ValSeriana si sono conservate le due particolari varietà. Lo Spinato di Gandino e il Rostrato di Rovetta negli ultimi vent’anni hanno trovato una nuova giovinezza, abbinando alla tradizione l’innovazione. Sono mais più “ispidi” di quello classico. Lo raccontano già i loro nomi, ispirati dalla forma dei chicchi: non tondi come quelli del mais classico, bensì a punta (nello Spinato) e a uncino (a “rostro”, nel Rostrato). La loro resa, anche per questi motivi, è inferiore, ma organoletticamente pregiata. Seminati solitamente tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, il raccolto avviene entro la metà di ottobre.

Mais Rostrato Rosso di Rovetta, ph. Mauro Monachino

Ma cosa cambia tra la polenta più classica e quella prodotta invece con questi mais?
La densità, innanzitutto: è meno liquida e più asciutta.
Ma anche il sapore: la polenta di Spinato e di Rostrato è leggermente più amara, più intensa. Una polenta unica, che ha spinto coltivatori e artigiani del gusto a trovare anche nuovi utilizzi per questi mais così particolari: oggi si producono gallette, frollini, birre, addirittura gelati.

DALLA TRADIZIONE ALL’INNOVAZIONE

«È affascinante come sia cambiata nei decenni l’immagine della polenta – commenta Valoti, che ha appena pubblicato un nuovo libro, Piante e animali del mondo contadino bergamasco (Lubrina, 2020). Da piatto della quotidianità è diventato emblema delle sagre, delle feste. Credo che questa mutazione sia avvenuta negli anni del boom economico: molte persone hanno detto addio alla terra per andare nelle industrie, dove i propri sforzi venivano ripagati sempre e non si era in balìa del clima. Questo ha modificato le abitudini alimentari, così come le cucine: il camino, ovvero l’elemento primo per la preparazione della vera polenta, è quasi sparito. È allora che la polenta è diventata l’eccezionalità».

Anche perché la polenta ha una qualità rara e decisamente invidiabile in cucina: non è una prima donna. Anzi, si esalta con l’abbinamento giusto. Ed esalta soprattutto qualsiasi compagno di piatto si trovi chiamata ad affiancare. «È vero, è un piatto umile nel senso più alto del termine – conferma Valoti -. L’unica cosa fondamentale è che ci sia il pucì, il sugo. Sin dall’Ottocento, qualsiasi cosa faccia sugo viene abbinato alla polenta. Dagli
osei, gli uccellini, al pesce. Fino ad arrivare, ovviamente, al suo abbinamento principe: il formaggio».

E qui è necessaria un’importante precisazione: non automaticamente la polenta mischiata al formaggio diventa taragna. Quest’ultima, infatti, è una polenta specifica, realizzata attraverso l’unione della farina di mais a quella di grano saraceno e successivamente condita con abbondante burro e formaggio. Una polenta più “grassa”, nata in Valtellina e che in Bergamasca trova la sua “casa” nella confinante Val Brembana, più montana della Seriana e ricca di formaggi (la maggior parte dei nove formaggi Dop bergamaschi sono proprio brembani, ovvero il Formai de Mut, lo Strachitunt, il Taleggio e il Bitto). Nonostante ciò, vi consigliamo di provare la polenta con una delle tante formaggelle di produzione seriana. Formaggi che presto troveranno anche un marchio unitario: la Formagela della Val Seriana, ideato dalla locale Comunità Montana e dotato di un apposito disciplinare.

Polenta taragna

Gustarsi un’ottima polenta in ValSeriana, dunque, non è certo impresa ardua. Perché in ogni cucina seriana che si rispetti il motto «polenta e chel che ghé» (al Rifugio Cimon della Bagozza, in Val di Scalve, è scritto a chiare lettere sul menù all’ingresso) vale sempre, lungo tutto l’arco dell’anno. Ma in inverno un po’ di più.
Perché la polenta non solo riempie e sfama, ma scalda anche col suo sapore pieno e il suo profumo di legna arsa.
E, soprattutto, la polenta fa casa.
È un piatto che unisce, che va messo al centro della tavola e va mangiato in compagnia.
La polenta è spirito di condivisione e unione
.
La polenta è un abbraccio.
E, di questi tempi, Dio solo sa quanto ne abbiamo tutti bisogno.

 

Articolo di Andrea Rossetti Per VALSeriana & Scalve Magazine