Persone Archivi - Sito ufficiale Valseriana e Val di Scalve https://www.valseriana.eu/argomenti/persone/ Portale turistico Fri, 29 Dec 2023 14:20:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.2 125612197 Un mondo di carta https://www.valseriana.eu/blog/un-mondo-di-carta/ Fri, 29 Dec 2023 14:16:27 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=65914

Carta e tessile: due motrici che corrono su binari paralleli.
Entrambe hanno come denominatore comune le fibre, punto di partenza che lega indissolubilmente due realtà che sono a loro volta testimoni di cultura. Basta gettare uno sguardo alla secolare tradizione tessile della Val Gandino, che per centinaia di anni ha vestito eserciti di tutta Europa, tingendo di rosso Scarlatto le camicie dei Mille. E poi c’è la carta, un microcosmo che se osservato con occhi nuovi si denuda di ogni stereotipo e diventa tridimensionalità, ponte fra vecchio e nuovo: alberi genealogici, mappe, ventagli, paralumi, ma anche magnifici aquiloni e affascinanti archivi storici.
Al centro di tutto questo c’è Nella Poggi, 45 anni, veronese di nascita ma bergamasca d’adozione, che nel suo laboratorio di restauro della carta nel cuore di Ranica accoglie opere di ogni genere e forma, riportandole con maestria al loro antico splendore. Il suo percorso professionale ha origini alla Scuola di Restauro di Botticino, nel Bresciano, ma è negli Stati Uniti che trova la strada della specializzazione. Sei anni, passati fra internship al MoMA di New York e al Getty Research Institute, conclusi come assistant al Balboa Art Conservation Center di San Diego.

Nella Poggi

Tornata in Italia, apre due studi privati a Verona e Milano, ma nel 2013 si trasferisce in pianta stabile a Ranica seguendo le origini bergamasche del marito. Nel frattempo avvia una collaborazione con il governo sudcoreano, immergendosi a capofitto in un progetto di promozione della carta coreana (chiamata hanji) a uso nel restauro (e non solo) in Italia.

Chiuso il capitolo Corea del Sud, sceglie di dedicarsi a nuovi progetti. Questa volta l’obiettivo è tornare a far rivivere le nostre tradizioni, quelle che pian piano stanno svanendo e riproporle alle nuove generazioni.
«Il progetto più importante in cui mi sono cimentata è stato il recupero conservativo del mappamondo di Papa Giovanni XXIII, oggi Santo, che versava in condizioni piuttosto precarie. Un pezzo unico che mappava le diocesi di tutto il mondo, realizzato dai padri Verbiti fra il 1958 e il 1960 e oggi conservato a Cà Maitino a Sotto il Monte. Un altro intervento di grande portata ha riguardato l’aquilone di Mimmo Paladino, molto complesso sia per dimensioni che per materiali utilizzati». Questo splendido manufatto è stato realizzato nel 1989 in occasione di una collettiva svoltasi in Giappone, in cui un centinaio di artisti crearono aquiloni seguendo le millenarie, tipiche tradizioni costruttive nipponiche.
Ora l’opera è al centro di uno studio pionieristico, in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria e Scienze Applicate dell’Università degli Studi di Bergamo, il cui obiettivo è capire attraverso delle microtomografie quali fibre siano state utilizzate per realizzarlo.

Papa Giovanni XXIII

Entrare nel laboratorio di Nella Poggi è quasi come accendere una macchina del tempo. Sui tavoli fanno bella mostra di sé opere antiche, in alcuni casi anche celebri e preziose, tra gli scaffali fanno capolino strumenti di ogni foggia.  
«La primissima fase di un restauro – spiega Nella – è comprendere l’oggetto, identificandone fibra, supporto e media pittorico. Dopo una leggera pulitura a secco si procede con l’acqua, che è il solvente primario e può essere applicata in tanti modi differenti, compresa l’immersione. Ci sono anche gli adesivi: noi utilizziamo principalmente amido di grano. Sono fondamentali per effettuare, insieme alle fibre selezionate, integrazioni e ricostruire parti mancanti. Esistono naturalmente anche macchinari appositi».
Accanto al laboratorio c’è un vero e proprio tesoro: un archivio proveniente dalla prima Scuola di Igiene ed Economia Domestica fondata in Italia, precisamente a Bergamo, nel 1908. È una testimonianza concreta dell’attenzione del tempo al miglioramento delle condizioni di vita quotidiana del mondo operaio e contadino. Oggi lo scenario è cambiato e ci si può per mettere di ricercare origini e luoghi, veri patrimoni come Gandino e tutta l’affascinante tradizione tessile della ValSeriana.

Il mappamondo di Papa Giovanni XXIII

L’obiettivo? Trasmettere alle nuove generazioni questo inestimabile testamento, quasi fosse un compito da imparare anche fra i banchi di scuola. Non a caso, Poggi collabora con gli istituti superiori in proficui momenti di alternanza scuola lavoro nonché con giovani restauratori al termine del loro percorso di studi. «In futuro mi piacerebbe avviare un progetto affinché i giovani comprendano l’esistenza di una tradizione che si interseca con culture differenti dalla nostra». Poggi parla della Broussonetia papyrifera, “l’oro bianco” asiatico, una pianta utilizzata da sempre per realizzare la carta in Oriente e da noi considerata infestante.
La stessa cresce ai lati della pista ciclopedonale che attraversa l’abitato di Ranica: chi l’avrebbe mai detto che in ValSeriana ci fosse uno degli arbusti che hanno fatto la storia della carta in Asia?
«Arriva un momento in cui capisci che è importante valorizzare la nostra cultura – conclude Poggi -. Altrove ci sono tradizioni ben valorizzate: quali, invece, circondano noi? Quanto le promuoviamo? La ValSeriana è diventata per me un luogo molto caro. Per questo motivo sono convinta che ci siano degli aspetti della nostracultura che dobbiamo impegnarci a diffondere sempre di più».


Articolo di Eleonora Busi del VALseriana & Scalve Magazine Inverno 2023/2024

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Magnifiche note https://www.valseriana.eu/blog/magnifiche-note/ Fri, 29 Dec 2023 13:45:53 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=65913

Andrea Tonoli, in ValSeriana e Val di Scalve, è il pianista. Il pianista compositore. Quando la sua musica risuona in luoghi familiari, si apprezza come tali contesti abbiano dato forma a un susseguirsi profondo e estremamente libero di note. Quando Tonoli suona nelle Magnifiche Valli lo fa con piacere e senso di rispetto, con incredibile generosità: queste sono le sue Valli. «Vedere qui la musica protagonista di eventi sottolinea è entusiasmante, nascono occasioni importanti per valorizzare il territorio in chiave turistica. È bello che associazioni e amministrazioni si impegnino in questo senso. In dieci anni l’approccio alle iniziative culturali è cambiato. Si cerca in modo più consapevole la qualità, ma non è semplice trasformare questa attitudine in una consuetudine. Serve osare di più ed essere pionieri di nuove idee, anche quando sembrano irrealizzabili».
Proprio Tonoli, con il concerto nell’estate del 2019 alla Diga del Gleno, è stato uno dei primi a portare in quota un linguaggio artistico tanto prezioso. Il vento che vibrava nei microfoni, il silenzio che esplodeva di emozione, la consapevolezza di aver fatto qualcosa di grande, per molti, in un contesto naturale che è stato quinta scenografica perfetta ed elemento costituivo della sua musica.

Andrea Tonoli in concerto alla Diga del Gleno

Sono parecchi i concerti di Andrea rimasti nella memoria di chi c’era e di chi ne ha ascoltato solo i racconti, a partire da quello nella chiesa di Santa Maria Nascente a Gromo San Marino, un gioiello di stucchi e decori con cui ha aperto il suo tour “Moonlight Tour 2016”. Senza dimenticare quelli proposti quest’anno in estate: una curiosa e riuscitissima “incursione” nella tradizionale sagra di San Rocco a Piario a Ferragosto, accompagnato dalla danza aerea e un’esibizione intima e profonda nella piazzetta di Via Mulina a Cerete, un luogo che nemmeno Tonoli conosceva e che, conferma, «ha un grande futuro scenografico».

E poi il concerto a Vilminore, sulla scalinata della parrocchiale, con i ceri a terra e la lettura di testi storici selezionati con la cugina Laura Ghislandi. Uno di quei momenti in cui la musica accarezza ferite aperte, facendo vibrare emozioni drammatiche. Le fiammelle attorno al pianoforte erano 359, come le vittime del Disastro del Gleno.

Foto di Matteo Zanga

Per Andrea la Val di Scalve è un po’ casa: ha proposto la sua musica in una sera di inizio agosto per il Centenario del Gleno, inaugurando così il cartellone di concerti per le commemorazioni.
Una responsabilità che solo chi ha interiorizzato la forza devastante del dramma di cento anni fa può restituire in poesia. «È importante concepire questi eventi come occasioni per portare gente da fuori a scoprire luoghi nuovi; non è semplice e nemmeno la mia musica lo è. Mi sono reso conto che le persone iniziano ad apprezzare e ascoltarmi con maggiore attenzione. Serve educare l’ascolto, per aprire a un’esperienza a 360°, nella quale, chiaramente, la location fa la differenza». Andrea racconta, stupito e divertito, che ai suoi concerti partecipano persone giunte appositamente da altre province. Poi ci sono i turisti, in Valle per una vacanza, che spesso “capitano” alle sue esibizioni e partecipano anche nelle date successive. Seguendo la coda del suo pianoforte, molti incontrano persone e visitano luoghi altrimenti inesplorati.
Succede che cose cambino di questo la vicenda personale e artistica di Tonoli è emblematica. Alla domanda «Da dove sei arrivato» infatti, preferisce rispondere con un «Direi: da dove sono tornato», cambiando il fluire del discorso con quello spirito libero e “anarchico” che lo ha guidato nella costruzione di una carriera professionale singolare e incredibilmente autentica, in cui ha tenuto lontano i compromessi dal sogno di diventare musicista. Al contrario ha sapientemente accolto affetti, luoghi ed incontri che ne hanno segnato, e a volte cambiato, il destino. Abbiamo il privilegio di ascoltarne le note fra i nostri monti e i nostri borghi ed è naturale chiedersi come questo ragazzo di 32 anni, studente fuori sede, abbia ottenuto nomination agli Hollywood Music in Media Awards e viaggiato per il mondo con tour internazionali partendo da Los Angeles.

Foto di Roberto Magli

Uno che a 27 anni ha scritto e prodotto un’autobiografia ricca di sincerità, che firma colonne sonore per National Geographic e per film americani e asiatici, che fa parte del CDA di Siae, sostenendo le carriere dei giovani musicisti in Italia. Perchè Andrea Tonoli è ancora qui, tra le sue Valli, a vivere e a suonare?
«Sono stato quasi dieci anni a Pavia e sono tornato nel 2019 in attesa di fare il trasloco su Milano perché il lavoro sembrava imporlo. Tutti i colleghi, le etichette discografiche, gli studi erano lì. Questa ricerca è stata interrotta dal Covid e qui ho apprezzato la tranquillità. Non me ne sono più andato».
L’istinto di Andrea è quello di andare, certo, ma lui si sposta perché, lo sottolinea con ironia, «non è pensabile campare suonando il pianoforte in ValSeriana».
Ma della ValSeriana è sicuramente “il pianista”, perché é qui che nasce il suo talento e qui continua a plasmarsi in scritture sempre più prodigiose. Ha deciso di portare la sua musica fuori dalla Valle per farla diventare robusta e autosufficiente, per poi riportarla quasi come un dono e un atto di riconoscenza.
Nella sua Gandellino, tra i boschi e i corsi d’acqua ai piedi delle Orobie, trova l’ispirazione, come se la valle e le sue radici fossero l’interruttore alle emozioni. «La libertà di pensiero qui è veramente tanta. È una valle che a volte “non esiste”. Se esco a fare una passeggiata il martedì alle 15 sono probabilmente l’unico in giro, ma questa quiete agevola la mia creatività». Spiega che non avendo manager alle spalle e un team che ne organizza il lavoro, non ha vincoli e può permettersi di comporre in modo autonomo, seguendo l’istinto: «C’è da dire che quando passi l’estate in tournèe, con concerti in tante città, in luoghi che non hai mai visto prima come di recente a Sulmona in Abruzzo, incontri tante persone, raccogli stimoli che riescono a diventare note solo nel momento in cui il contesto in cui vivi rende possibile la loro trasformazione».

Andrea Tonoli a Peia

Il sogno di Andrea ora è solido, serio, consapevole. È una strada percorsa da autodidatta, lungo la quale il genio creativo ha accettato di convivere con il rigore di un professionista, permettendo che un talento, scoperto per caso tra le mura di casa, diventasse una carriera internazionale. Nel prossimo futuro Andrea sorprenderà ancora, con un progetto eccezionale pianificato per il 2024 in Finlandia. Qui i turisti possono acquistare un’esperienza notturna, in cui si aspetta l’Aurora Boreale. Lui con il pianoforte sarà pronto a suonare al comparire delle pennellate verdi.
Per l’estate del prossimo anno sta lavorando anche per un unico grande concerto, al Monte Pora, in cui concentrare il pubblico delle Magnifiche Valli, ipotizzando comunque progetti ancor più ambiziosi.
«In Sicilia un pastore ha creato con muro a secco un teatro molto rustico, ispirato ai teatri greci. Si chiama Teatro di Andro meda, è a sbalzo su una Vallata silente e inanimata e uno fra i più famosi luoghi di spettacolo della Regione. Ecco mi piacerebbe costruire un teatro in valle, i luoghi ci sono. Serve però qualcuno che ci creda e condivida con me questa follia». La vita è fatta di incontri.
Chissà che Andrea non trovi sul suo commino il pastore che ama la musica, libero e anarchico come lui.


Articolo di Fabio Cuminetti del VALseriana & Scalve Magazine Inverno 2023/2024

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Largo ai giovani https://www.valseriana.eu/blog/largo-ai-giovani/ Fri, 29 Dec 2023 13:42:38 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=65908

«Dicono che l’asino sia l’animale più empatico? Oddio, non è sempre vero. Ce ne sono alcuni che sono proprio zucconi, la componente caratteriale è fortissima. E comunque vanno preparati e addestrati a fare le attività con le persone». È un fiume in piena Marta Pucci, classe 2001. Con la sua famiglia si occupa della Stalletta Cobla, ad Albino. 22 anni e tantissima energia, intelligenza, preparazione e passione. È lei il simbolo della ValSeriana dei giovani, quella che si reinventa, che innova e trova canali inesplorati per far girare l’economia.
Tutto è iniziato nel 2008, quando suo padre (veterinario) pensò di tenere un paio d’asine per rispondere al problema d’intolleranza al latte vaccino della bambina. Oggi gli animali sono 25: due cavalli, quattro asine per la “terapia” e poi le fattrici e i puledri.
L’azienda Pucci unisce tradizione e innovazione. Oltre al latte, produce creme per la cosmesi e da qualche anno ha aperto alla sempre più richiesta didattica con gli animali, rivolta a progetti legati alla disabilità, per centri diurni e comunità. Marta è titolare dal 2021 e con lei l’innovazione ha accelerato. S’è fatta affiancare da un’educatrice, Monica, e lei stessa dopo lo Scientifico si è iscritta a Psicologia. «I miei hanno pensato di intestarmela come attività collaterale allo studio, ma ho deciso di farlo a tempo quasi pieno, perchè mi fa stare bene». L’asina Chanel è la terza protagonista di questa storia. Dal 2008 accompagna l’attività dei Pucci, donando affetto a bimbi e ragazzi. «Conosco tutti i suoi figli, è buona come il pane». Gli effetti benefici della terapia sono evidenti. «Gli operatori ci raccontano che diversi giorni dopo i ragazzi sono ancora tutti felici, immersi nel ricordo di quei momenti così gioiosi, passati con gli animali». Ormai l’azienda si è fatta un nome e le richieste sono tante: «Abbiamo dovuto dire di no ad alcune proposte. I progetti avviati con le diverse realtà proseguono da anni, segnale che le cose funzionano bene». Ciliegina sulla torta, la collaborazione (rivolta anche alle scuole) con il castello di Malpaga: «Qui gli spazi sono ridotti, in quella cornice possiamo unire la suggestione del luogo e i benefici della terapia»

Marta Pucci con la famiglia

Ci spostiamo ora in Val di Scalve. Federico Magri ha 26 anni, ma le spalle sono già robuste e reggono il peso della responsabilità. Con una spinta dei genitori ha preso in gestione da qualche mese lo storico Hotel Ristorante San Marco di Pradella, frazione di Schilpario. «Fin da quando avevo 14 anni ho affiancato mio padre in questo mestiere», dice con voce ferma e orgogliosa. La voce di un classe 1997 che ha rinunciato a tante serate con gli amici per coltivare una passione. «Dopo la scuola alberghiera ho fatto diverse esperienze, ma sempre con il chiodo fisso di gestire un giorno un ristorante tutto mio».
Da Vilminore è bastato fare qualche chilometro per trovare un’occasione ghiotta. I gestori precedenti hanno deciso che era tempo di godersi la pensione, così Federico ha imbarcato la famiglia in un’avventura per niente banale. «Mi occupo della gestione e della cucina, mio padre mi affianca, la mia ragazza Sara lavora in sala con altri tre dipendenti, ragazzi e studenti della valle». A giugno la riapertura, dopo aver dato una bella rinfrescata ai locali.
«L’estate è andata bene, ma sono appena tre mesi. Sono più preoccupato per le stagioni intermedie, sarà una bella sfida riflette Federico con la cautela tipica degli uomini di montagna. Per l’inverno mi auguro una bella iniezione di turismo dagli impianti di Colere». Ma come convince i clienti a tornare? «Punto sulla qualità, allargando l’orizzonte a prodotti non solo locali. Abbiamo il pesce di lago e stiamo introducendo anche quello di mare, oltre ai vini e ai salumi del Friuli. In generale stiamo alzando un po’ il target, i posti da 150 sono scesi a 70, per coccolare meglio i clienti». Con l’inflazione, come fa a tenere i prezzi concorrenziali? «Ci ritagliamo una minore marginalità, in modo che le persone tornino anche due o tre volte».

Federico e Sara

Torniamo al di qua del Passo della Presolana, fino a Castione. Nel borgo di Rusio è caduto un… Fioccodineve. Il negozio di Andrea (classe 1986) e della sua ragazza Elena (1991) è aperto dal 2016 e continua a crescere, tanto che sta baluginando nella coppia l’idea di aprire un secondo punto vendita. Ma tutto è nato un po’ per gioco, quando lei ha pensato di fare del gelato con il latte di capra prodotto dal fratello nell’azienda di Onore. Poi si sono conosciuti, è scoppiato l’amore e anche la passione per questo prodotto così particolare e leggero. «Abbiamo fatto una ricerca approfondita per bilanciare la ricetta spiega Andrea. Non usiamo la panna, ma grassi vegetali. Il latte è al cento per cento di capra, non usiamo preparati per gelateria che contengono latte in polvere vaccino».
Certo, il borgo è piccino, e i passi sono stati tutti ben ponderati. «Volevamo vivere qui. Per quattro anni abbiamo lavorato solo d’estate, poi abbiamo allargato l’offerta per andare incontro alla domanda dei clienti: confetture, brezel con speck e formaggi locali, torte, vin brulé, biscotteria. Ogni anno aggiungiamo qualcosa».
A Castione nel weekend il negozio è preso d’assalto: «D’inverno gli sciatori di ritorno dal Pora si fermano a fare merenda davanti al braciere. I prodotti sono genuini, fatti da noi, e anche le materie prime, quando possibile, le compriamo da produttori locali, come il miele o il burro di malga». C’è chi viene appositamente per il gelato di capra: «Molti intolleranti al latte vaccino si rivolgono a noi perchè dato che i prodotti caprini non danno loro disturbi, possono finalmente gustarsi un gelato artigianale a base di latte».
Chiamale se vuoi, emozioni. 

Andrea e Elena

Articolo di Fabio Busi del VALseriana & Scalve Magazine Inverno 2023/2024

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Emozioni a fior di pelli https://www.valseriana.eu/blog/emozioni-a-fior-di-pelli/ Fri, 29 Dec 2023 09:47:33 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=65910

Parcheggio l’auto tra i cumuli di neve un po’ torbida che si è posata sull’asfalto nero, sbarrando quella strada che per il resto dell’anno accompagna motociclisti, ciclisti ed escursionisti al Passo del Vivione. Per il resto dell’anno, ma non oggi. Oggi quella stessa strada ha cambiato pelle, come un serpente che, invece di spogliarsi, ricopre le sue scaglie con un velo bianco e freddo che attira centinaia di persone come me.
Forse è il fascino di vivere qualcosa che non sempre è possibile e ciò esalta il valore del tempo. Certe cose bisogna farle al momento giusto. E con un pizzico di fortuna. Questo l’ho imparato da piccolo, quando stavo seduto sul sedile del passeggero, mentre mio padre parcheggiava nello stesso spiazzo tra i cumuli di neve. «Finalmente ne è arrivata un po’, possiamo metterli subito ai piedi», annunciava la sua voce roca mentre il suo capo si abbassava a scrutare con fiducia il versante oltre il parabrezza. Quelle parole ora le pronuncio io con gli amici, o semplicemente le borbotto nella mia testa. Al caldo del mio stomaco c’è un rotolo fucsia di pelli di foca, la cui colla ha ripreso un po’ di vigore ed è pronta ad aderire perfettamente al fondo freddo e un po’ graffiato dei miei sci d’alpinismo. Il profumo dell’aria gelida pervade i miei sensi, che si spalancano nello sforzo di controbattere la gravità.

Partenza del Raid del Formico sul monte Farno

La frazione iniziale è la più difficile da superare, con i muscoli freddi e il fiato che, come si dice in gergo, “deve rompersi” mentre produce nuvolette di vapore umido. Mentre scivolo verso una cima che rimane timidamente nascosta dietro i pini sempreverdi sfumati di bianco, apprezzo la leggerezza dell’attrezzatura che oggi mi permette di praticare questo sport magnifico e primordiale. In fondo, seppur materiali e tecnologia siano all’avanguardia, sto risalendo il bosco innevato su due assi, propulsando il mio impegno attraverso due bastoncini stretti nel pugno dei guanti.
Quando lo sci alpinismo, se così si poteva chiamare, è nato nei Paesi nordici, per necessità prima che per svago e sport, lo scafo di plastica degli scarponi non esisteva e normali calzature erano legate con lacci di cuoio ad assi diritti e completamente di legno, non certo di fibra di kevlar e carbonio più leggera e malleabile.
Le lamine e la sciancratura moderna che oggi facilitano l’ascesa a sempre più appassionati, chi per amore per le attività outdoor e chi alla ricerca di adrenalina e agonismo, non erano immaginabili in quei primi prototipi di sci e racchette da neve.

Le pelli di foca hanno mantenuto il loro nome emblematico e sono il vero simbolo identificativo di questo sport, anche se sono ormai sintetiche. Esco dal boschetto e mi ritrovo in un un’ampia conca ondeggiante, da cui posso apprezzare meglio le cime e i pizzi aspri che si ergono ancora selvaggi verso il cielo. Tra di loro svetta il Cimone della Bagozza con i suoi 2.407 metri intonsi. Sul manto nevoso, aggrappato con unghie al ripido versante, riesco a scorgere lo zigzagare ordinato e geometrico delle tracce degli scialpinisti che mi hanno preceduto con le loro inversioni, gesto tecnico che pare un balletto agile e coordinato: una gamba aperta quasi in spaccata verticale, e l’altra piegata per sollevare la punta dello sci e cambiare repentinamente direzione.
Accanto vi sono le tracce ribelli e irregolari della discesa, tra curve perfette e linee quasi rette di chi preferisce la velocità alla cura di pennellate eccellenti.

Oggi incontro molti più sci alpinisti rispetto a quando venivo qui da ragazzino. Ci sono i “tutina” con i muscoli tirati in una divisa aderente, i tradizionali “lent ma seguent” con pantaloni comodi e caldi su sci sempre più larghi per godersi al meglio la discesa e ci sono tanti neofiti, riconoscibili dalla sorpresa nel ricevere un saluto cordiale da altri sconosciuti che praticano lo stesso sport.

Finalmente lo sci alpinismo sarà pure presente alle Olimpiadi di Milano Cortina 2026, per la prima volta. Credo che anche l’entusiasmo delle nostre valli abbia contribuito alla crescita di uno sport che permette di vivere la montagna invernale in maniera unica.
Basti pensare all’evoluzione del Rally della Presolana, ora noto come Ski Alp 3. Dalla sua nascita nel 1977 ha mantenuto la formula tradizionale di Rally per le prime 29 edizioni, con prove a coppie caratterizzate da sfide a cronometro di salita e discesa fuori pista. La bontà del nostro movimento casalingo è testimoniata dall’albo d’oro, che vede alternarsi i più forti degli Sci Club nostrani (Sci club 13 Clusone, Lizzola, Gromo e Val Gandino), con gli atleti “forestieri”, come i fortissimi valtellinesi, gli austriaci e negli anni più recenti gli atleti dell’Esercito. Meritano citazione la coppia Boscacci-Murada, vincitrice dell’edizione del 1977, o il dominio tedesco-francese nell’edizione del 2013, valida come Coppa del Mondo.
Quando un manipolo di tutine mi saluta affannosamente allungando il più possibile la racchetta dietro le proprie gambe azionate a ripetizione da un motore invisibile, penso ai grandi di casa nostra, che ammiravo ai circuiti di notturne che illuminano di frontale le nostre montagne.

Su tutti, Pietro Lanfranchi di Casnigo, per otto anni nell’orbita della Nazionale italiana e protagonista delle gare alpine più spettacolari e attese, come il Trofeo Mezzalama, il Sellaronda o la Pierra Menta. E senza dimenticare Giovanni Zamboni, attuale campione nazionale master. Due atleti dalla vera tempra bergamasca, perché hanno sempre dovuto conciliare lavoro e allenamenti, giornate di riposo e gare contro chi lo faceva di mestiere.  Ce ne sarebbero moltissimi da citare, e il movimento non si ferma, anche grazie alla splendida passione degli Sci club nostrani, tra cui senz’altro lo Sci club 13 e il suo riferimento storico Giannino Trussardi, che mettono i giovani al cuore di un progetto in crescita. Quest’anno la giovanissima clusonese Lara Nodari ha assaporato per la prima volta le vertigini di competere per la Coppa del Mondo Juniores in “tutina” azzurra.
La mia mente, ora completamente a suo agio nell’aria fresca e pura dei Campelli, non può che viaggiare a quella gara che ho sempre ammirato, il Trofeo Mezzalama, nato nel 1933 e una volta chiamato “maratona dei ghiacciai”, con i suoi 40 km tecnici in equilibrio sopra i 4.000 metri, tra Castore, Lyskamm e le altre vette del gruppo del Monte Rosa. Seppure si tratti di una gara di sci alpinismo di un giorno, è forse quella che più si avvicina alla traversata della Groenlandia da parte del norvegese Fridtjof Nansen nel 1888, primo utilizzo conosciuto dello sci alpinismo per inseguire quel fuoco che brucia dentro e ci spinge a superare i nostri limiti, a cercare qualcosa che vada al di là di una routine confinata e sicura. 

Ecco, la sicurezza è un altro aspetto dello sci alpinismo che si è evoluto moltissimo e che purtroppo è spesso sottovalutato. Pala, arva sonda, da considerare come un kit unico, vanno sempre portati. Non solo: è fondamentale fare un po’ di pratica e avere a mente un minimo di teoria. E non vale la scusa «io vado solo in pista», perchè il richiamo delle gite spettacolari in ambiente è irresistibile e arriverà quel giorno in cui si accetterà l’invito di un amico più esperto e si risalirà un versante splendido e immacolato. Sarà un giorno memorabile e bisogna essere pronti.

Anche da questo punto di vista siamo fortunati, perchè le Valli Bergamasche pullulano di iniziative organizzate da C.A.I. e Soccorso Alpino, come il tradizionale appuntamento di gennaio “Montagna Sicura” della sezione di Clusone, o i giochi di “Pora Senza Frontiere”. E infine va sottolineato come il primo gioco in scatola dedicato allo sci alpinismo, “Pelli di Foca”, non potesse che nascere in ValSeriana. Vuole divertire e in contemporanea sensibilizzare sulla corretta organizzazione di un’escursione di sci alpinismo e dell’utilizzo della giusta attrezzatura.
Mentre tolgo le pelli dalla soletta degli sci e mi godo una meritata discesa, penso ancora una volta a quanto sono fortunato. Fortunato a vivere in queste Magnifiche Valli, condite da una bellezza immensa, che brilla di luce diversa in ogni stagione.


Articolo di Simone Trussardi del VALseriana & Scalve Magazine Inverno 2023/2024

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Una ricarica…di energia https://www.valseriana.eu/blog/una-ricarica-di-energia/ Wed, 12 Jul 2023 10:03:51 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=62842

Oltre seicento installazioni in tutta Europa. Tremila punti di ricarica per la mobilità elettrica. Diecimila prese. Sono i numeri di un’azienda bergamasca che, con la sua Pila – colonnina di ricarica per dispositivi elettronici -, sta cogliendo un successo senza precedenti. Si tratta della Pradella Sistemi, azienda innovativa nata da un’idea del titolare Furio Pradella.

«Tutto comincia con una telefonata fra me e mio fratello – racconta -. Eravamo due partite Iva, nel 2014. Lui era in aeroporto e mi ha detto: “Non immagini quale coda ci sia fuori dai bagni per ricaricare i cellulari alle prese pubblicheˮ. E sottolineavamo l’esigenza di trovare una soluzione più agevole. Mentre parlavamo, ho cominciato a disegnare. Quando la conversazione è finita gli ho detto: guarda questo disegno, è questo che intendi? Era la colonnina di ricarica sui cui abbiamo basato la nostra azienda».

Passano pochi mesi da quell’intuizione. L’impresa cresce e si sviluppa. L’idea della colonnina è vincente. Si chiama Pila. Dopo il deposito del brevetto, la commissione giudicatrice della Camera di Commercio di Bergamo inserisce l’azienda di Pradella fra le start up innovative nell’incubatore d’impresa del Point di Dalmine.

Il core business sono le soluzioni per smart city e la mobilità sostenibile. Vere e proprie isole digitali studiate per fornire servizi utili e ad alto impatto sociale per pubbliche amministrazioni, trasporti e aziende. Pradella progetta sistemi di ricarica elettrica modulari, dotati di ogni genere di servizi. Dalla semplice presa fino a dispositivi di cardioprotezione. Realizza infrastrutture come colonnine e panchine interattive in cui sono integrati charging point Usb per dispositivi elettronici, contenitori per defibrillatori ad alti standard qualitativi e punti di ricarica per auto, scooter elettrici, e-bike e monopattini.

Il prodotto di punta di Pradella, quello che ha ottenuto il più ampio riscontro internazionale, è appunto Pila. È una colonnina di ricarica per dispositivi elettrici ed elettronici, che può essere equipaggiata con sistemi opzionali di ogni genere. E che ha un ulteriore vantaggio: quello di essere indenne al cosiddetto “juice Jacking”, ovvero il furto dei dati degli utenti da parte di cyber- criminali. Pila infatti è una stazione di ricarica sicura, perché non è connessa in rete, non ha connettività dati, ma è solo un dispositivo di ricarica elettrica che non fornisce alcun tipo di informazione. Una scelta semplice e oculata, spiegano dall’azienda. La colonnina è completamente off-grid, scollegata da qualunque tipo di connessione e priva di scambio dati. Progettata così perché da tempo era diffuso il timore che, negli aeroporti per esempio, i charging point pubblici potessero leggere i dati dei cellulari che andavano a ricaricare, violando la privacy e esponendo i telefonini a hacker e malware.

Furio Pradella

Pila no. Non legge dati. Non accede a reti. Questo è il suo punto di forza. Un’isola di ricarica completamente autonoma, ideale per stazioni, aeroporti, luoghi pubblici, aziende. La colonnina è prodotta in quattro diverse versioni (release) denominate 2.04, 2.05, 6 e Light, ognuna delle quali disponibili nella variante con installazione a terra o a muro; con e senza la speciale teca per defibrillatore DAE. Ogni Pila è poi personalizzabile con una serie di dispositivi e servizi aggiuntivi. Le colonnine permettono tantissime diverse configurazioni: da due a quattro prese Shuko, fino a quattro caricatori per ebike, rastrelliere fotovoltaiche fino a 4 stalli e 8 caricatori (Sunrail), rastrelliere con 8 caricatori e persino AI Cam, ovvero telecamere di sicurezza per il monitoraggio di un’ampia area circostante, deterrente contro atti vandalici o criminali.

Per funzionare i sistemi di Pradella utilizzano, come abbiamo visto, anche energia rinnovabile e sono frutto di un’intensa attività di ricerca e sviluppo, il vero cuore dell’azienda. È in questo settore che Pradella continua a investire tempo ed energie, con l’obbiettivo di sviluppare prodotti nuovi e rivoluzionari. «La nostra ricerca e sviluppo è determinante – spiega ancora Pradella -. Amplieremo a brevissimo il personale con l’inserimento di nuove figure, sia nel settore tecnico sia in quello commerciale. Abbiamo avuto molte richieste e le stiamo valutando».

La Pradella Sistemi ha sede a Cene, in ValSeriana. Attualmente ci lavorano 28 persone, fra dipendenti e collaboratori. Importantissime sono le collaborazioni che l’azienda ha instaurato con Istituti tecnici e Università e le partnership con aziende specializzate dei settori fotovoltaico, meccanico e della sicurezza. Gli standard qualitativi raggiunti da Pradella ne hanno fatto uno dei punti di riferimento italiani nel settore. Tanto che l’azienda oggi conta su centinaia e centinaia di installazioni attive, due campagne di equity crowdfunding e 40 soci investitori, 7 brevetti internazionalizzati e installazioni sul territorio nazionale, europeo ed extraeuropeo. «Nei giorni scorsi abbiamo avuto un’ottima notizia – dice ancora il titolare – la nostra azienda è stata inclusa nel prestigioso consorzio Intellimech che si occupa di meccanotronica. Per noi è un onore essere inclusi in quel consesso di grandi aziende come Scame, BB Sace, Siemens».

Articolo scritto da Wainer Preda per VALSeriana & Scalve Magazine – estate 2023

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Armonia e sapore, il sesto senso di Tallarini https://www.valseriana.eu/blog/armonia-e-sapore-il-sesto-senso-di-tallarini/ Fri, 07 Jul 2023 14:52:06 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=62846 Una splendida struttura, immersa nel verde. Sulle colline di Gandosso che digradano verso il lago d’Iseo. Con un laghetto naturale dotato di pontile che sembra uscito da una fiaba e un giardino di essenze selezionate da architetti paesaggisti ed esperti dell’orto botanico di Bergamo. E poi terrazze panoramiche affacciate su frutteti, boschi e corsi d’acqua. E quei filari di vite, che sono il vero tesoro. È uno spettacolo, l’Azienda Agricola Tallarini.

A fondarla, quarant’anni fa, Vincenzo Tallarini, imprenditore capace di anticipare i tempi. In quella tenuta, un borgo di caseggiati antichi, intravede la possibilità di sviluppare un’attività in armonia con la natura. E lì, intorno al 1985, comincia a produrre vino di qualità. Il suo progetto: costruire una cantina tutta bergamasca. Quarant’anni dopo, quel progetto è una delle aziende enologiche più celebri della nostra provincia. Il “Fontanile” è il centro logistico e la cantina madre. Milleottocento metri quadrati coperti, fra l’austera rotondità delle botti di legno e il fascino delle pupitres gravide di magnum e champagnotte in silenziosa attesa. E poi il luccichio inox di una cantina perfettamente organizzata.

PERCORSI GUIDATI TRA GUSTO E STORIA
La struttura durante l’anno ospita anche tour enogastronomici e visite guidate con degustazioni per appassionati, curiosi o per chi semplicemente ami mangiare e bere bene. Il visitatore è guidato attraverso le fasi di produzione dei vini. Dall’arrivo dell’uva, passando per l’imbottigliamento e in ne l’etichettatura.
A questo si aggiungono i 4 percorsi enogastronomici a scelta. Sono denominati Gold, Sweet, Food e Stellata. «La prima degustazione comprende 4 vini, formaggi e salumi – sintetizza il direttore della struttura Maurizio Ginami -. La seconda aggiunge Moscato di Scanzo e biscotti. La degustazione Food comprende anche le lasagne, antica ricetta di “Nonna Maria”, mentre Stellata è un vero e proprio pranzo: antipasto, primo, secondo e dolce, oltre ovviamente ai nostri vini».

L’esperienza è coinvolgente. Avvolti dalla natura, fra profumi, aromi, sapori unici e prelibatezze per il palato. La degustazione Gold, per esempio, esalta quattro vini abbinati a prodotti locali scelti con maestria e accuratezza. Potrete gustare un flûte di spumante Crystal Rime 2019, pinot nero Brut metodo classico, da sorseggiare nella cantina di affinamento. E poi un calice di Arlecchino 2021, Chardonnay, abbinato a stracchino di Vedeseta. E ancora un calice di Vermiglio 2019, moscato rosso della Bergamasca Igt, perfettamente abbinato a salamino “Le Due Lune” di Agosto Tallarini e a culatello di Zibello. E infine un calice di Gaetano 2009, Valcalepio rosso riserva Doc, abbinato al roccolo della Valtaleggio. 

«Le nostre degustazioni – spiega ancora Ginami – sono molto richieste. Abbiamo circa un centinaio di visitatori a settimana, un po’ di tutti i tipi e tutte le età. Da chi si approccia per la prima volta ai vini, agli esperti di settore. I nostri clienti sono in maggioranza italiani. D’estate abbiamo anche stranieri, che si presentano con la foto del vino sul cellulare e vanno alla ricerca di questi assaggi».

PROVARE PER CREDERE
Chi ha provato le degustazioni parla di un’esperienza entusiasmante. «Un modo bellissimo per trascorrere una domenica pomeriggio diversa dal solito – dice Fabio L. -. La cantina è situata in un luogo incantevole e curato. La visita è stata esaustiva e chiara, anche per persone alle prime armi come me. Il vino ha soddisfatto le nostre aspettative, con una nota di merito per lo spumante». «Ho visitato la cantina un sabato pomeriggio – racconta Davide -. Le spiegazioni tecniche sono state molto accurate e condite da genuina simpatia. I prodotti? Davvero eccellenti, in particolare il Moscato di Scanzo e i vini rossi». «La visita alla cantina è stata davvero molto interessante – aggiunge Sofia P. -. La guida era preparata e molto chiara. Ha spiegato in modo semplice e completo tutte le fasi di preparazione del vino. Durante la degustazione abbiamo assaggiato prodotti e vini davvero eccellenti. Consiglio vivamente la visita».

Le degustazioni, con prenotazione obbligatoria, sono facilmente consultabili e prenotabili sul sito internet www.tallarini.com.

 

Articolo scritto da Wainer Preda per VALSeriana & Scalve Magazine – estate 2023

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Note senza tempo https://www.valseriana.eu/blog/note-senza-tempo/ Fri, 24 Feb 2023 11:29:37 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=59868 La musica, si sa, è elemento imprescindibile dell’identità culturale di un popolo e in ValSeriana essa è diretta emanazione di strumenti che vivono oggi una seconda giovinezza: il baghèt (o meglio l’antica cornamusa bergamasca) e le campanine. Patria indiscussa del primo è senza dubbio Casnigo, al punto che una specifica delibera del Consiglio Comunale stabilì nel 2009 di conferire al paese il titolo di “patria del Baghèt”. «È uno strumento povero – spiega Luciano Carminati che guida l’associazione di promozione – nato e cresciuto tra i pastori. I suonatori erano per la maggior parte contadini, e si ritrovavano nelle stalle d’inverno. Passata l’Epifania, poco prima del carnevale, il baghèt veniva riposto, per essere ripreso agli inizi dell’inverno successivo, a San Martino. Con il baghèt si suonava l’antica “pastorèla” e si accompagnava il canto».
In Bergamasca ci sono tracce della cornamusa che risalgono al 1300 e nel 1793 il pittore Lattanzio Querena di Clusone immortalò un suonatore di baghèt in una natività tuttora collocata presso il Santuario della Madonna d’Erbia. Un importante impulso alla riscoperta dello strumento fu dato dagli studi del ricercatore, musicologo e liutaio Valter Biella, autore nel 2010 del volume “Pia o baghèt, la cornamusa in terra di Bergamo” edito dal Comune di Casnigo. «Per molti suonatori – scrive Biella – la cornamusa prendeva nome direttamente dalla sacca, la baga, anzi per maggior precisione da una piccola sacca, un piccolo otre, cioè un baghèt». Così Antonio Tiraboschi descriveva lo strumento nel “Vocabolario dei dialetti bergamaschi antichi e moderni” del 1873: “Sorta di strumento pastorale composto di un otro (Baga) e di quattro cannelle: Bochì, Pia o Diana, Orghegn o Bas. Il bochì è la cannella più corta, con foro unico in cima per gonfiar l’otro col fiato. La Diana o Pia è la cannella un po’ più lunga, terminata in campana, con pochi fori da aprirsi e chiudersi con il polpastrello delle dita e così dare una qualche modulazione al suono che ne esce collo stringere l’otro fra il petto e le braccia. I Bas o Orghegn sono le due cannelle servire da accompagnamento”.

Il Baghèt

Nel municipio di Casnigo sono conservati due antichi strumenti, appartenuti il primo al casato degli Zilioli (conosciuti come “Fiaì”), e il secondo a Giacomo Ruggeri detto “Fagòt”, probabilmente ultimo suonatore di baghèt dell’intero arco alpino sino agli anni ’60 e successivamente testimone di un’arte tramandata attraverso la sola tradizione orale. Oggi il baghèt (il cui “luogo del cuore” è la chiesa della Ss. Trinità, definita la Sistina della Bergamasca) si avvale dell’attività di alcuni suonatori, che tengono viva una tradizione secolare. Decisa la volontà di riproporne l’anima popolare e festosa, al punto che il gruppo guidato da Luciano Carminati nel recente passato ha proposto le proprie melodie a Expo Milano 2015, allo Zecchino d’Oro su Rai Uno e in un cliccatissimo video con il Gabibbo su Canale Cinque. Un altro strumento estremamente caro alla tradizione della ValSeriana è quello delle “campanine”. Un termine che al contrario delle apparenze non allude a una campana in miniatura, bensì a uno strumento preparatorio per avvicinarsi al suono delle campane, in particolar modo al “suono d’allegrezza”, vale a dire del suono a tastiera o a carillon.

Quirino Picinali con le campanine in una foto di Scheuermeir del 1932

«Le campanine – spiega Luca Fiocchi della Federazione Campanari Bergamaschi che nel 2022 ha celebrato a Nembro il ventesimo di fondazione – nascono verso la fine del XVIII secolo, quando in area bergamasca e lombarda vengono fusi concerti di campane con cinque e più bronzi, intonati in scala ascendente maggiore. Ci fu un probabile influsso della cultura d’oltralpe, in particolare delle Fiandre, dove fiorenti erano i commerci tessili seriani. Una “contaminazione” decisiva per utilizzare la campana come un vero e proprio strumento musicale e non solo come richiamo per le funzioni. Il suono a carillon entrò in Lombardia e impose il dominio di una tecnica in precedenza sconosciuta, dando vita a un repertorio popolare con brani tramandati dalla sola tradizione orale. Da qui l’esigenza di uno strumento d’esercizio, utile a memorizzare le melodie da eseguire sul campanile. È ancora da chiarire il motivo per cui le campanine bergamasche siano state costruite con risuonatori in vetro (spesso recuperati da vecchie finestre), fatto decisamente unico in Italia, ma certamente la costruzione s’inserisce nel panorama dei vetrofoni europei elaborati nel XVIII secolo. Esattamente come avviene con lo xilofono, il progressivo ridursi della lunghezza del risuonatore fa crescere la sua intonazione. Allo stesso modo, il vetro di maggiore spessore porta ad avere una nota più acuta. Ciò che rende il vetro suonabile è la cassa armonica, costituita da una scatola in legno rettangolare, dotata di un coperchio su cui viene praticata un’apertura per favorire la percussione sui vetri, intonati e disposti in serie, da parte di due martelletti. In passato veniva utilizzato legno povero, derivante da cassette di frutta o vecchi mobili. Negli anni più recenti le campanine hanno utilizzato materiale alternativo al vetro. È il caso del metallo e dell’ottone, la cui sonorità viene più direttamente assimilata al suono delle campane».

Campanine suonate al Santuario della Santissima Trinità

Il repertorio delle campanine in Bergamasca, intese come strumento preparatorio per la musica da eseguirsi sul campanile, non si discosta molto da quello delle campane. Annovera perciò marce, qualche brano religioso e molta musica da ballo. Le campane e le campanine si collocano a metà strada tra la dimensione sacra e quella profana, in quanto sono strumenti finalizzati alla celebrazione delle solennità, ma presentano anche un repertorio tipicamente popolare. Le aree in cui si è sviluppata maggiormente la tradizione sono la Media Valle Seriana, la Val Gandino e la Media Valle Brembana, ciascuna con un repertorio ben definito. Prezioso “certificato” della tradizione seriana delle campanine arriva da una foto che risale agli anni ’30 del Novecento, quando a Gandino giunse lo studioso svizzero Paul Scheuermeier che già nel 1920 aveva intrapreso un viaggio per redigere “l’Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale”. Un lavoro, testuale e fotografico, disponibile presso l’archivio del Seminario di Romanistica dell’Università di Berna. Lo studioso svizzero soggiornò a Gandino dal 27 al 30 settembre 1932, affiancato dal disegnatore Paul Boesch. I due furono guidati a usi e costumi quotidiani da Quirino Picinali (1880-1962) detto Manòt, di professione falegname, ma anche campanaro. In un’immagine si vede lo stesso Picinali intento a suonare le campanine. Oggi a portare avanti un egregio lavoro di valorizzazione è la Federazione Campanari Bergamaschi, che a Leffe, Scanzorosciate, Sorisole e Roncobello ha attivato Scuole Campanarie frequentate da tanti giovani allievi. Perché la melodia non si debba interrompere.

Articolo scritto da Giambattista Gherardi per VALSeriana & Scalve Magazine – inverno 2022/2023

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Segnali di Cultura https://www.valseriana.eu/blog/segnali-di-cultura/ Fri, 24 Feb 2023 10:59:12 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=59303 Il progetto legato ai Percorsi Letterari è realizzato nell’ambito del bando Lombardia Attrattiva, con lo scopo di valorizzare il patrimonio naturale del territorio in chiave originale e innovativa, utilizzando vari linguaggi espressivi, culturali e letterari. Una chiave creativa cui hanno dato pieno compimento Iriam Bettera Design di Onore e Abitare Baleri di Ferdy Baleri ad Albino. Grazie al loro sforzo sinergico, è stato possibile realizzare e posizionare i Segnali di Cultura lungo i sentieri.

Ogni tappa dei singoli percorsi è accompagnata da un cartello nero con una banda colorata, posto su un’asta che è infissa nella roccia; sull’asta tre sassi di fiume sottolineano il rapporto con la montagna.

Così Iriam Bettera spiega gli elementi dei Segnali di Cultura:

«Il Bastone, di ferro, materiale crudo vero e forte. Ferro che racconta storie di miniere sudate e di piccozze che segnano le rocce. Ferro che resta nel tempo e lo racconta, lo scandisce con ritmi che sopravvivono all’uomo. Il Gesto, istintivo e forte dell’innestarsi della punta nel terreno. Non in perfetta verticalità, quella non appartiene al faticoso muoversi in montagna, ma un’incidenza obliqua, naturale per il braccio di chi percorrendo sentieri montani cerca sostegno. La declinazione dell’Omino, l’Umì, così è detto l’accumulo di sassi, primordiale segnale del sentiero, piramide nata spontanea che si rinnova e cresce con il lento rituale del lasciare, sasso dopo sasso, un segno rispettoso del proprio passaggio alla montagna. Il piano dove sono incise parole che ci rendono unici al mondo, discendenti di menti che hanno guardato da una prospettiva diversa, più alta: allora lo scritto sia in verticale, affinché per leggere si debba muovere il capo in modo inusuale, per rispetto e riconoscenza».

Giovedì 27 ottobre 2022 a Onore il progetto è stato presentato nel corso di un incontro fra imprese e territorio, coordinato da Gianluca Madonna, consigliere PromoSerio delegato al settore Industry.

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Una ragazza d’oro https://www.valseriana.eu/blog/una-ragazza-doro/ Fri, 27 Jan 2023 13:58:43 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=59302 Eppure Chiara non se la tira neanche un po’. Quindici anni compiuti da poco e parecchie medaglie al collo. Medaglie di quelle pesanti, che luccicano di metallo pregiato. Ma lei resta umile. Non dice a nessuno quello che fa. Titolo italiano, tre ori ai Giochi del Mediterraneo, oro agli Europei di Monaco di Baviera e tanto per gradire oro individuale e bronzo a squadre al Tb Pokal di Stoccarda, classicissima della ginnastica continentale. Dietro tutto questo sfavillare di titoli c’è una ragazza che sta crescendo, che scopre le emozioni della vita e la voglia di stare con le amiche, conoscere coetanei, prendersi una cotta. Il tempo è sempre un po’ tiranno per chi vuole assurgere a certi livelli. «Si allena tutti i giorni dalle 9 di mattina alle 5 del pomeriggio – spiega la mamma Elena Savoldelli -. Il mercoledì e il sabato invece fa solo la mattina, dalle 9 alle 13.30». Quel “solo” riferito a oltre quattro ore di fatica rende bene l’idea della dimensione dello sforzo, dell’altezza vertiginosa a cui sta viaggiando la giovane di Songavazzo.

Una vita molto sincopata, un ritmo frenetico di sport e studio. «La scuola è quasi sempre online: frequenta la iSchool (liceo delle scienze applicate), segue le lezioni registrate e un percorso didattico personalizzato per riuscire a incastrarsi con le esigenze della ginnastica» aggiunge papà Maurizio. «Studia anche in macchina, sfrutta quella mezz’ora di viaggio. Oppure mentre guardiamo la tv, lei sta lì con noi in sala e riesce a concentrarsi sui libri».

Elena Savoldelli, Massimo Gallina, Lara Magoni, Chiara e il Sindaco Covelli

Giuliano Covelli, sindaco di Songavazzo, il 15 ottobre scorso le ha consegnato il Premio Atleta dell’Anno in una serata di festa con tutto il paese. «Il 13 dicembre la premierò con la borsa di studio» aggiunge il primo cittadino. Non stupisce, in realtà. «Sa porsi degli obiettivi, lavora con tenacia e determinazione – prosegue la mamma -. In passato qui girava tutto intorno alla ginnastica. Adesso Chiara alterna due settimane a Cesena (milita nell’Us Renato Serra) e due a casa. Ogni tanto frequenta le lezioni in presenza, ma capiterà un paio di volte al mese». Tra sessioni di trave, corpo libero, volteggio, e pagine di storia, matematica, chimica, la routine di una ragazza così rischia di lasciare davvero senza fiato. «Cerchiamo di distoglierla un po’, quando possibile. A questa età i sacrifici pesano di più, lei scopre il mondo intorno. Le sue amiche sono le compagne dell’artistica. Quando possiamo la portiamo da loro, si trovano vicino a Bergamo. Non è facile tenere insieme tutto, ma lei è brava a mantenersi in equilibrio» dice la madre.

I genitori non hanno mai fomentato particolarmente la figlia. «Quando aveva pochi anni la maestra ci ha detto di farle fare uno sport che la stancasse. Era un bel peperino. Così abbiamo pensato all’artistica, che era praticata già da sua sorella maggiore». Da lì non si è più fermata, senza il bisogno di particolari sproni da parte di mamma e papà. «È arrivata un po’ tardi ai livelli più alti. Ci sono bambine, magari figlie di ginnaste, che a sette anni già puntano al circuito Gold. Noi qui a Songavazzo pensavamo ad altri sport, lo sci. Di certo non la ginnastica. Però l’abbiamo assecondata». Chiara mostrava una grande forma, ma non era di certo la favorita nel 2019, anno dell’exploit con il titolo italiano nell’individuale. «Il percorso successivo non è stato banale. Ha avuto un infortunio, c’è stato il Covid. Ma alla ripresa si è fatta trovare pronta».

I sacrifici delle ginnaste sono alla ribalta in queste settimane. In particolare quelli alimentari. I genitori della Barzasi non svicolano rispetto all’argomento. Tutt’altro. «Due anni fa era notevolmente sottopeso. L’allenatore Massimo Gallina allora l’ha portata da un nutrizionista, che la segue tuttora. Certo, non può abbuffarsi di patatine fritte tutti i giorni, questo è ovvio e valido per gli atleti di qualsiasi sport. Deve mangiare sano, molta verdura. Deve tenersi controllata e per questo c’è il nutrizionista, ma nella ginnastica artistica le ragazze non sono poi così esili. Anzi, mostrano braccia e gambe muscolose. Le polemiche riguardano più che altro il mondo della ritmica» sottolineano i genitori di Chiara. Elena e Maurizio si chiedono da dove arrivi questa tenacia. Cosa spinge la ragazza ad accettare tutti questi sacrifici? «È quasi una dipendenza – sorridono -. Entrano in un mondo che le affascina moltissimo. Abbiamo detto all’allenatore che ce l’ha “drogata” di ginnastica. Scherzi a parte, più si allena e più lo vuole fare, i risultati danno una grande carica. E poi stanno bene tra amiche, fanno squadra, nonostante sia uno sport individuale. Si sostengono e vivono insieme emozioni fortissime». Chiara è un esempio, per un piccolo borgo come Songavazzo è una gioia grandiosa. «Porta il nome del nostro paese in giro per l’Italia e l’Europa – afferma il sindaco -. Questo mi emoziona. Potrebbe andare alle Olimpiadi del 2028, e il pensiero mette i brividi. Più che celebrarne le gesta è importante che il suo sia un grande esempio, per tutti».

 

Articolo scritto da Fabio Busi per VALSeriana & Scalve Magazine – inverno 2022/2023

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Il Belvedere di Giusi Pesenti Calvi https://www.valseriana.eu/blog/il-belvedere-di-giusi-pesenti-calvi/ Fri, 27 Jan 2023 11:43:44 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=59299 Nel parco della proprietà Belvedere, sulle colline di Alzano Lombardo, ci sono tre querce secolari. Sono alberi bellissimi e enormi, ognuno con più di 150 anni. In un angolo un po’ più in là, nella valletta, c’è quello che una volta era un tiro a segno. Alcune lettere ritrovate a posteriori, dicono che lì i garibaldini siano venuti a provare i loro fucili, donati dall’allora proprietario della tenuta, il conte Defendente Piccinini, prima della spedizione dei Mille. Forse c’è stato anche Giuseppe Garibaldi, in persona. Seduto sul bordo di una delle meravigliose fontane della tenuta, l’Eroe dei Due Mondi avrebbe addirittura gustato delle fresche angurie. È un patrimonio storico e immobiliare enorme quello che Giuseppe Pesenti Calvi, detto “Giusi”, discendente della famiglia di imprenditori del cemento, ha lasciato al Comune di Alzano Lombardo.

Interni del Belvedere

Sulla facciata della meravigliosa villa che domina la tenuta ci sono ancora gli stemmi di famiglia. Oggi la struttura è gestita dalla Fondazione Giusi Pesenti Calvi. Il Comune l’ha fondata il 20 luglio 2020 ottemperando al testamento dell’imprenditore, morto nel 2018, a novantatré anni. La Fondazione, che ha cominciato ad operare nel 2021, non ha fini di lucro. Persegue esclusivamente finalità culturali, sociali e di pubblica utilità, nell’interesse della comunità di Alzano Lombardo. Obiettivi espressi nello Statuto, che la Fondazione realizza attraverso i rendimenti del patrimonio finanziario, in linea con quanto indicato nel testamento dell’imprenditore. Fra gli obblighi testamentari ci sono anche la conservazione, il mantenimento e la prosecuzione dell’attività agricola della tenuta. Per questo la Fondazione è già arrivata un accordo con l’Università di Milano, facoltà di agraria, e sta lavorando con quelle di Bergamo e Brescia, oltre che con Cariplo, per le attività culturali.

Viale del Belvedere

La Fondazione è guidata da un consiglio d’amministrazione composto dalla presidente Mariangela Carlessi, dal vicepresidente Sergio Valetti, dal consigliere Fabrizio Bonomi e dal revisore dei conti Daniela Barbara Morlacchi. Gestisce il patrimonio che l’imprenditore ha lasciato al Comune. Ovvero, un’area di circa 54 ettari per lo più composta da bosco, 10 fabbricati (la maggior parte vincolati a monumentale, in area paesaggistica), tra i quali la nota “villa Belvedì”, realizzata negli Anni Sessanta su più antiche preesistenze.

La costruzione, chiamata anche Castello, è la testimonianza di una storia gloriosa ma non ostentata. Si trova all’imbocco della strada che, dalla Büsa di Alzano, si avvia verso le frazioni di Olera e di Monte di Nese. Perfettamente inserita nel paesaggio naturalistico e rurale circostante, è incastonata sulle pendici del Monte Colletto. La sua posizione è strategica: lungo uno dei più importanti tracciati viari delle epoche antiche, la via Mercatorum, fino al Cinquecento unico accesso per gli scambi commerciali con la Valle Brembana.

Fontana presente all’interno del parco del Belvedere

«Tutta la proprietà è vincolata dalla Soprintendenza – spiega la presidente Carlessi – e per rendere fruibile l’accesso alla villa, che è una casa museo, serve un adeguamento della strada, attualmente uno sterrato a tornanti poco funzionale ad attività pubbliche. Stiamo cercando di reperire i fondi attraverso un bando per poi sottoporre il progetto alla Soprintendenza. Nel frattempo abbiamo restaurato la Cappella settecentesca che sarà inaugurata nel 2023. E dobbiamo lavorare anche su un fronte franoso a monte della villa, che va sistemato». Oggi la villa – che sovrasta su sinuosi terrazzamenti lungo la collina, fino a pochi decenni fa coltivati a vite, e si trova ai piedi del fitto bosco che si estende a monte -, è perfettamente conservata. Elegante, ma non eccessiva, è circondata da alberi e ha un viale d’accesso costellato di maestosi cipressi. Qui non è difficile immaginare Pesenti Calvi a passeggio, con i guanti bianchi del blasone e la proverbiale gentilezza con i suoi ospiti.

Giuseppe Pesenti Calvi era nato il 6 gennaio 1925 a Nese, nella Villa fatta erigere dal nonno Carlo Pesenti all’antica proprietà Montecchio. Era stato il nonno, nel 1906 a fondare la storica società che nel 1927 diventerà Italcementi. La famiglia, con una rapida ascesa, diventò fra le principali della borghesia industriale italiana. Giuseppe fin da piccolo mostrò grande passione per la terra e per la campagna. Tanto che nel 1956 si laureò in Scienze Agrarie a Pisa con una tesi su “Vini da pasto e vini speciali”. Dalla madre ereditò grandi proprietà terriere nella Bassa Bergamasca. A Martinengo diede vita a un’importante azienda per l’allevamento dei bovini da latte che rimase la sua attività principale fino agli anni Duemila. Dal nonno paterno invece acquisì la grande tenuta Belvedere, che trasformò nella sua casa di campagna. Qui sui terrazzamenti, coltivava vino Merlot. Profondamente legato alla sua terra, alle sue origini, al ruolo che la famiglia rivestì per la città in cui era nato, Pesenti Calvi morì nell’amata residenza del Belvedere il 12 febbraio 2018, designando quale erede universale il Comune di Alzano Lombardo. La sua salma riposa nella Cappella Pesenti, disegnata da Luigi Angelini, nel cimitero di Alzano. Sulla lapide, una semplice iscrizione: “Agricoltore”.

Esterni del Belvedere

Oggi la Fondazione che porta il suo nome dispone anche di un Comitato tecnico scientifico che si occupa di attività di consulenza per i diversi organi della Fondazione e di formulare pareri non vincolanti sulle attività, le linee guida, i programmi e gli obiettivi inerenti le finalità dell’ente. Del Comitato fanno parte Maria Mencaroni Zoppetti, Riccardo Panigada, Ugo Castelletti, Doriano Bendotti e Bruno Pirola. «La Fondazione gestisce gli immobili con lo strumento giuridico del diritto di superficie per trent’anni. Il loro valore di proprietà superficiali è stimato in oltre 5 milioni di euro. I terreni sono concessi in usufrutto gratuito per trent’anni, per un valore di 230mila euro. Il valore dei mobili, suppellettili e attrezzature agricole è di oltre 800mila euro. La gestione del patrimonio immobiliare e mobiliare del “Belvedere”, rimasto in proprietà al Comune di Alzano Lombardo, segue criteri e indicazioni testamentarie specifiche e stringenti», spiega ancora Carlessi.

Cancello di ingresso al Belvedere

Inoltre, ogni anno la Fondazione mette in palio borse di Studio per studenti del settore agricolo, forestale e ambientale, organizza il torneo annuale del Roving (caccia con l’arco, disciplina di cui l’imprenditore era appassionato), promuove attività culturali, sociali e sportive. Dalla sommità della villa si gode un panorama meraviglioso delle colline, che digradano verso valle. Insomma, grazie al lascito di Giusi Pesenti Calvi e al lavoro della Fondazione, un pezzo importante della storia e della bellezza della terra bergamasca continua a vivere, immutato, nel tempo.

Articolo scritto da Wainer Preda per VALSeriana & Scalve Magazine – inverno 2022/2023

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Il talento del maestro scende in campo https://www.valseriana.eu/blog/il-talento-del-maestro-scende-in-campo/ Tue, 29 Nov 2022 08:49:43 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=58635

C’è stato un tocco artistico sugli ostacoli in campo per il Jumping Verona 2022. O almeno su uno degli ostacoli che hanno fatto parte dei percorsi della Longines FEI Jumping World Cup™. Gli elementi che hanno composto infatti un ostacolo di tavole sono stati dipinti da Andrea Baleri, artista 42enne, affetto dalla nascita da tetraparesi spastica.

Andrea Baleri con la sua opera d’arte

Nato a Bergamo e residente ad Albino, diplomato al Liceo Artistico e all’Accademia Carrara di Belle Arti, Baleri ha tenuto la prima mostra personale nel 2002 (“Movimenti veloci”), alla quale da allora sono seguite numerose esposizioni personali e collettive.

Andrea dipinge dalla sedia a rotelle e le sue opere, di stile contemporaneo, sono caratterizzate da tocchi decisi di colore, realizzati con lunghi pennelli o servendosi delle stesse ruote, tocchi che sono un autentico gesto di espressività.

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Un bacio al cielo https://www.valseriana.eu/blog/un-bacio-al-cielo/ Wed, 29 Jun 2022 19:56:58 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=54359 «Come le chiamate voi giornalisti le notizie grosse? Adesso gliene regalo una: questa cosa non la sa nessuno. Nella famosa spedizione del 2004, mio figlio Mario è salito sull’Everest e sul K2 con un piede rotto. Era orgoglioso di essere stato scelto fra i migliori alpinisti a livello nazionale, ma venti giorni prima di partire si era rotto una caviglia. Avevano paura che lo lasciassero a casa, ci disse di non farne parola con nessuno. “Non è niente”, ripeteva. Io però vedevo che gli faceva male, continuava a cambiare posizione: “Fa sito!”, mi diceva. Di nascosto, un amico lo portò da uno specialista a Bergamo, fece i raggi e venne fuori che un osso si era spostato. Il dottore gli disse che in quelle condizioni non sarebbe dovuto partire. Lui invece prese la macchina e andò dalla Gronell, la società che produceva scarponi d’alta quota, per farsi fare una protezione speciale, guardi, gliela faccio vedere».

Protezione

Luigina è la mamma di Mario Merelli, l’indimenticabile alpinista bergamasco di Lizzola, che il 2 luglio avrebbe compiuto sessant’anni. Merelli, che aveva conquistato dieci 8.000 il 12 gennaio 2012 precipitò dalla Punta Scais, la montagna di casa. Mamma Luigina ha accettato di parlare con noi, accanto alla figlia Raffaella, e le siamo grati di questa fatica nel ricordare suo figlio.
«Pochi giorni prima della partenza fecero una presentazione della spedizione al Donizetti, c’era anche il ministro Alemanno. Gli alpinisti salirono sul palco e uno di loro si accorse che Mario camminava male, sudava e gli chiese cosa aveva. Lui rispose: “Ho preso una storta alzandomi dalla poltroncina”. Mario non si lamentava mai del dolore. Insomma, salì in cima all’Everest e arrivò a 8200 metri sul K2 con una caviglia rotta. Al K2 il Mondinelli mi ha raccontato che forse per la prima volta Mario si era davvero arrabbiato. Aveva portato tutto il materiale e il cibo al campo 3 e la sua tenda era stata svaligiata…».

«Mario era il mio terzo figlio, dopo la Raffaella e il Dino. Da bambino quando gli chiedevano: “Tu cosa vuoi fare da grande?”. Rispondeva: “Il Papa!”. “Ma se vuoi fare il Papa allora prima devi fare il prete”. E lui: “No, no, io voglio fare il Papa!”. Fin da piccolo era spericolato, praticava sport estremi e si faceva sempre male, una volta alla spalla, un’altra al collo. Il medico diceva: “È la crescita”. Ma mio marito Patrizio si arrabbiava ogni volta: “Ma quale crescita, tu non vedi che cosa fa tuo figlio, fa le capriole con gli sci!”. Io non l’ho mai sgridato perché era troppo furbo con me, mi guardava con i suoi occhioni e io mi scioglievo. Sta di fatto che ogni domenica si faceva male. C’era un dottore di Milano che veniva a riposarsi a Lizzola ed era diventato uno di famiglia: tutte le settimane doveva cucire qualcosa a Mario. Ma tanto era matto, tanto era affettuoso. Gli piacevano il contatto, l’abbraccio, il bacio, le coccole».

«L’ho mandato alla scuola alberghiera, contavamo su di lui per l’albergo Camoscio. Una volta sono scesa a Castione della Presolana a scuola perché sapevo che non era bravo. “Volevo chiedervi come va mio figlio”, dico ai professori. E loro: “È bravo, bravissimo”. Li interrompo: “Scusate, forse non avete capito: io sono la mamma di Merelli di Lizzola”. Mi guardano stupiti: “Ma certo, il Mario, è bravissimo”. Aveva cominciato a fare sul serio, ha frequentato il corso di cuoco e ha iniziato a farlo anche da noi su in albergo, era bravo anche a preparare, non solo a cucinare, ma pota non c’era mai. Abbiamo dovuto assumere una cuoca perché lui spariva continuamente, andava in moto, in bici, con gli sci. Arrivava il papà e chiedeva: “Dov’è?”. E io gli rispondevo che l’avevo mandato a prendere il pane o qualcos’altro, lo coprivo. Ma lui non c’era mai ad aiutare».

«Allora l’ho spedito in un albergo grande a Domodossola. Avrà avuto 22 o 23 anni. Ogni volta che partiva però, io volevo andare a vedere dov’era. E un giorno in macchina sono salita a Domodossola: praticamente gestiva l’albergo da solo. In cucina era bravissimo e non lo volevano più lasciar andare via: “Sa cosa abbiamo risparmiato di carne coi piatti che prepara lui?”. E io: “No, no, non ve lo lascio qui, mi serve a casa”. A un certo punto si era messo in testa di andare a lavorare sulle navi, ma non l’ho lasciato. L’ho tenuto io, ma scappava sempre. Il richiamo della montagna era troppo forte. Mio marito, però, che sapeva fare di tutto (quando l’ho sposato faceva il falegname) ha voluto che Mario lo affiancasse. E quando mio marito è morto, ha preso il suo posto. In albergo faceva tutto lui». «Col papà, che era guida alpina, fece la sua prima spedizione e si trovò bene. Poi è andato sempre più avanti. Avrei potuto fermarlo un po’, invece non l’ho mai fatto. A casa nostra si è mangiato pane e montagna, si parlava solo della montagna. Quando veniva il Carlo Nembrini, si sedevano davanti al camino e lui raccontava… Un giorno il papà, che doveva accompagnare dei clienti sul Chimborazo, la montagna più alta dell’Ecuador, gli chiese di andare con lui. Mario si illuminò: “Salgo con voi, poi io scendo col parapendio”. Un volo di circa 4 ore da 6.300 a 3.200 metri. Senonché, durante la discesa una bufera improvvisa lo scaraventò contro le rocce e si ruppe un braccio. Il papà non gliela lasciò passare: “Tu con quel coso lì hai chiuso”. L’anno dopo mio marito morì e Mario abbandonò il parapendio».

«Il lavoro in albergo diminuiva e lo trasformammo in bed&breakfast. Ma anche così c’erano periodi nell’anno in cui i turisti non salivano a Lizzola. Mario allora andò a fare i disgaggi, a rimuovere pietre e rocce pericolanti dalle pareti accanto alle strade e a montare le reti paramassi. Lavorava imbragato e col martello pneumatico. Ha lavorato anche nella galleria del Bianco. E il suo datore di lavoro lo voleva sempre, perché, oltre a non tirarsi mai indietro, la sera teneva allegra la squadra. Col passare del tempo però la montagna per lui è diventata sempre più importante».

Mario Merelli

«In montagna sapeva dove mettere i piedi e non aveva mai fretta, per questo tutti andavano volentieri con lui. Diceva: “Le montagne non si muovono, stanno lì”. Quando lo salutavo perché partiva per una spedizione, a me veniva da piangere e lui mi abbracciava forte: “Mamma, prima venite te, i miei fratelli e tutti quelli che mi vogliono bene, io non rischio la vita per la montagna, perché la montagna ci sarà sempre, stai tranquilla. So bene che se mi succedesse qualcosa, ti lascerei un dolore enorme. E io gli rispondevo: “Bravo, il papà ti ha insegnato bene a fare l’alpinista”. Nelle spedizioni quante rinunce ha fatto. Quante volte ha rinunciato alle vette per soccorrere qualcuno, quante volte ha rinunciato a una cima per un amico. Alla fine, però, ha avuto la possibilità di fare quello che gli piaceva. In una delle ultime interviste ha detto: “Non piangete se mi capiterà qualcosa, sappiate che io ero in un posto dove volevo essere”. Era cosciente che sarebbe potuto capitare… Come diceva anche mio marito: “Piuttosto che morire in un ospedale per una malattia…”. Mario ci aveva raccomandato: “Se succedesse qualcosa di irreparabile non mandate nessuno a cercarmi, che mettiamo a rischio la vita degli altri”. Aveva visto tanti suoi compagni morire lassù».

«Il destino, invece, ha voluto che la tragedia capitasse qui, sopra casa. Pensarlo chissà dove in un ghiacciaio per me sarebbe stato un dolore ancora più grande. Almeno so come è morto e me l’hanno portato in casa. E però è stata una cosa crudele, anche perché non sapevo nulla e a darmi la notizia è stata una giornalista. Quella mattina ero sola e mi avevano chiamato quelli del soccorso della Croce Blu, io ero collegata col Beghelli, perché ho sempre sofferto di cuore. “Come va, signora?”. E io: “Bene, ma guardate che io non vi ho chiamato, cosa c’è”. E loro: “Stiamo provando se va bene il telefono, lei sta bene?”. “Sì, benissimo”. Passano pochi minuti e chiama una giornalista: “Signora, che cosa è successo lì a Lizzola?”. “Non so niente, non sono ancora uscita di casa, lei che cosa ha sentito?”. “Ho sentito che è accaduta una disgrazia”. “Ah sì? Quale disgrazia?” “Parlano addirittura dell’alpinista Merelli Mario che è caduto”. Mi è venuto un colpo, ho detto: “Ma sa che Merelli Mario è mio figlio?”. “Oh, scusi, allora ho sbagliato tutto”. Ho lasciato giù il telefono, ho fatto un urlo e mi sono trovata stesa sulla panca, svenuta. I miei figli li ha chiamati Zaffaroni, il più grande amico di Mario, e sono corsi su. Ero per terra e non riuscivo neanche ad aprire la porta. Il giorno dopo sono venuti dei giornalisti a scusarsi, ma non si fanno queste cose».

«Sono passati dieci anni dalla sua morte, ma Mario è vivo, talmente vivo che anche persone che non vedevamo da anni ci hanno scritto e telefonato in occasione dell’anniversario. «Ma davvero lei si ricorda ancora di Mario?». «Ma scherza? Non sa quanto Mario mi ha lasciato?». Gente che magari l’aveva visto una volta sola in una serata. C’è sempre qualcuno che lo rimpiange. Probabilmente ha lasciato qualcosa nel cuore delle persone, non tanto le sue imprese alpinistiche. Si ricordano delle sue mani, della sua voce, di come parlava e coinvolgeva chi lo stava ad ascoltare. Diceva: “Il bello è raccontarla, la montagna. Se non avessi qualcuno che mi ascolta, non andrei neanche. Che gusto c’è conquistare una cima senza poter abbracciare un amico?”. Alla fine di ogni serata chiedeva a sua sorella: “So stàt brao”?
In questi anni a Mario hanno dedicato molte cose: il rifugio Coca, una via a Terno d’Isola, la rosa dei venti al Bronzone, il palazzetto di Valbondione e il nuovo palazzetto delle scuole medie di Vertova, perfino un sentiero vicino a Salò. Gli sono rimasti legati in tanti, tanta la gente semplice, perché lui era uno semplice».

Mario con la madre Luigina, dal libro Mario un cuore grande (2016)

«Noi adesso coi due anni di pandemia abbiamo avuto il dispiacere grande di dover chiudere il Camoscio, lo viviamo un po’ come un tradimento di Mario, ma non si poteva più andare avanti. Mirella, la moglie, è tornata in Spagna. Quella donna è una stella. Ma anche in una situazione così difficile, lui avrebbe ripetuto la sua frase tipica: “L’importante è volersi bene, dopo tutte le cose si mettono a posto”. Quando non prenotava nessuno, Mirella si preoccupava e lui sdrammatizzava: “Non abbiamo mangiato anche oggi? Nel frigo abbiamo il necessario, che problema c’è?”. Aveva visto la povertà del Nepal e laggiù gli volevano un bene dell’anima. A Kathmandu lo conoscevano tutti, lo chiamavano tutti: Mario, Mario… Lui tornava in albergo e diceva a sua sorella: “Prendi questa roba e va là dietro, c’è una mamma con cinque bambini… sapeva dove erano i più poveri fra i poveri. E quando Raffaella andava nei negozi a comprare i souvenir le raccomandava: “Non prendere tutto da uno solo, eh”. Se c’erano dieci bancarelle, faceva acquisti in tutte e dieci. Andava per le montagne ma anche per quella povera gente. Con Zaffaroni aveva messo in piedi il Kalika Hospital. Il suo sogno, io l’ho sempre saputo, era andare a vivere in Nepal con Mirella. Mi diceva: “Mamma, andrò quando tu muori, ma sono convinta che sarebbe andato anche prima. E io l’avrei lasciato andare».

«Era un mammone, Mario, guai per sua mamma. Insieme eravamo “matocchi”, cantavamo, ballavamo. Dopo che ho perso mio marito la prima cosa che facevamo quando ci si alzava era accendere il giradischi. Era troppo bravo. Una mamma che ha un figlio così è felice per tutta la vita. Sul letto conservo le sue parole, gliele vado a prendere, guardi che cosa aveva scritto: “Grazie per tutto, cara mamma. Sei sempre la migliore! Ti voglio bene. Un bacio”. Da quel giorno tristissimo non ho mai smesso di piangere».

Articolo del Direttore Ettore Ongis per VALSeriana & Scalve Magazine estate 2022

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Seriani e stellati https://www.valseriana.eu/blog/seriani-e-stellati/ Sat, 04 Jun 2022 11:55:35 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=54358 C’è una nuova generazione di chef della ValSeriana che può vantare una carriera stellata in Italia e nel mondo. Alcuni di loro fanno già tesoro di quanto appreso nelle cucine più blasonate del pianeta per portare il verbo dell’alta cucina in patria, coniugandolo con le eccellenze del nostro territorio, sia a livello di tradizione che di materie prime. Altri per il momento proseguono l’arricchimento del curriculum lontano da casa, ma a quali fornelli finiranno in futuro non è dato sapere.

Lazzarini mentre sceglie le materie prime

Partiamo dalla scelta coraggiosa di Michele Lazzarini, di Gandellino, premiato giusto l’anno scorso dalla rivista enogastronomica Identità Golose come “Miglior sous chef” d’Italia in quanto talentuoso braccio destro di Norbert Niederkofler al St. Hubertus, noto ristorante tristellato altoatesino. Dopo nove anni ha lasciato la prestigiosa cucina di San Cassiano (Bolzano) per tornare in ValSeriana e andare a Contrada Bricconi, in Valzurio, Oltressenda Alta. A convincerlo il progetto di Giacomo Perletti, bergamasco classe 1986, che ha messo in piedi un allevamento con circa trentacinque capi di razza Grigio Alpina, dai quali vengono ricavati carne e formaggi squisiti. Ci sono anche venti maiali.

Bergna, marinata nel vino, essicata e cotta alla brace

Lazzarini, studi superiori all’Alberghiera di Clusone, in Contrada Bricconi ci è finito nel 2018. «Già avevano l’idea d’integrare il progetto agricolo con un punto di ristorazione, allora abbiamo iniziato a fantasticare insieme. Man mano l’idea si è fatta strada», racconta Lazzarini. Ora sta prendendo forma: l’apertura è prevista il 16 giugno con lo chef fornelli: «Ho preso la decisione di mettermi in gioco per una ristorazione che celebri la cultura di montagna e la sostenibilità». Che cosa si mangerà? Vegetali autoctoni, carne e pesce d’acqua dolce: «Nel mio paese c’è un signore che ha delle vasche per l’allevamento di trote e salmerini, sono alimentate direttamente dalla sorgente, acqua purissima. Lui gestiva un ristorante che si chiama Bar Trota, le utilizzava per tale ragione. Poi ha smesso. Ora riprendiamo anche quella lavorazione», dice ancora Lazzarini.

Mattia Pecis

Proseguiamo con Mattia Pecis di Clusone, 25 anni, a cui è stata affidata la guida della cucina del ristorante di Carlo Cracco a Portofino, inaugurato lo scorso luglio. Ha ereditato la passione dalla mamma e ha pure lui frequentato l’alberghiero di Clusone, ma non ha finito il corso perché già impegnato nelle prime esperienze lavorative fuori Bergamo. Nel 2015 galeotta fu la scelta di mandare il suo curriculum a Cracco, che lo ha preso in prova nel suo ristorante in galleria, a Milano. «Ricordo che la prima volta che lo vidi ne fui un po’ intimorito, ero giovane e con poca esperienza alle spalle. Ma a Cracco devo moltissimo: mi ha trasmesso il suo amore per questo lavoro», racconta Mattia, che lì è rimasto quattro anni (durante i quali ha cucinato per celebrità quali Michelle Obama e Rihanna, e ha affiancato Gordon Ramsay nella preparazione di una cena a quattro mani), per poi passare al St. Hubertus, dove ha lavorato al fianco di Lazzarini. Quindi, la nuova chiamata di Cracco per la Liguria. Nel locale di Portofino la carta è tutta improntata sul pesce a chilometro zero; l’unico prodotto che viene da fuori sono le uova dell’azienda “Le Selvagge” di Nembro, dove le galline girano libere per i boschi della zona.

Mattia Agazzi

Il nome successivo ci porta oltreoceano. Mattia Agazzi, 32enne di Alzano Lombardo, ha infatti conquistato a Los Angeles un posto nell’Olimpo della ristorazione. A ottobre 2021 il giovane bergamasco ha fatto ottenere la Stella Michelin all’Osteria Gucci di Beverly Hills. Ha studiato all’istituto Ipssar di Nembro, i cui docenti l’hanno instradato in un percorso di crescita di ottimo livello: i fratelli Cerea del ristorante Da Vittorio ed Ezio Gritti dell’Osteria di via Solata in Città Alta. Poi, a un certo punto, decide di partire per affinare le sue esperienze all’estero. È stato a Londra, Sidney e Parigi, mentre in Italia ha lavorato con il pluristellato Massimo Bottura. Proprio grazie al celebre titolare dell’Osteria Francescana e a Marco Bizzarri, ceo di Gucci, nasce l’Osteria Gucci by Bottura, a Firenze, dove Agazzi viene chiamato come sous-chef. Quando poi il progetto è stato replicato la Los Angeles, per il ruolo di head chef la scelta è caduta proprio sul giovane seriano.

Salvatore Sanfilippo
Salvatore Sanfilippo

Ha studiato a Nembro anche Salvatore Sanfilippo, da Leffe (ma i genitori sono siciliani): il suo nome è stato inserito, insieme a quello del ristorante in cui lavora, nella prestigiosa guida svizzera Gault Millau. Da una decina di anni si è spostato infatti nel Canton Ticino. Vive e lavora al Moan di Bellinzona dove dà forma «a una cucina qualitativa e, allo stesso tempo, innovativa e creativa, al passo coi tempi. Questa filosofia ci sta portando a ottenere risultati», racconta. È coinvolto nel progetto “Essenziale!”, uno spazio virtuale che permette a chiunque di avvicinarsi o approfondire le dinamiche del settore “food & beverage”, raccogliendo e trattando argomenti provenienti dalle diverse microcategorie che lo compongono.

Gelato alla carota, granita di sedano e zucchero di cipolla, piatto di Sanfilippo

Per concludere, ricordiamo che anche il cuoco più stellato d’Italia è seriano: Umberto Bombana, di Clusone. Attivo in Asia dal 1993, ha da poco conquistato il nono riconoscimento Michelin e non è escluso un passaggio in doppia cifra, vista la mole di nuove aperture di locali, negli ultimi anni, sotto l’ala del suo brand.

 

Articolo di Fabio Cumetti per VALSeriana & Scalve Magazine – estate 2022

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Esplorando in bicicletta https://www.valseriana.eu/blog/esplorando-in-bicicletta/ Sat, 04 Jun 2022 10:21:48 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=54364 Una delle mie più grandi passioni è viaggiare in bicicletta. Ho avuto la fortuna di scoprire molti angoli lontani da casa. Ognuno di questi ha arricchito la mia anima ribelle, ma l’ha anche addomesticata. Sì, perché quando vivi un viaggio fino in fondo impari ad apprezzare anche il punto di partenza e la tua casa. La ValSeriana è la mia casa. E vivere qui è senza dubbio una grande fortuna. Come l’ho capito? Ovviamente in sella.

San Lucio – Clusone

Quando pedalo sulle nostre strade immagino di farlo chissà dove, ma capita anche il contrario. Quando la stanchezza ti mette il bastone tra le ruote, chiudi impercettibilmente gli occhi, cerchi un appiglio dentro di te, e torni sempre alle stesse coordinate. L’Alpe d’Huez diventa il Selvino, l’Arthur Pass Neozelandese la sponda scalvina e la salita infernale islandese si trasforma nel San Lucio. Ed è grazie alle salite di casa che in un modo o nell’altro arrivo sempre in cima.

La ValSeriana brulica di industrie e di conseguenza di traffico. Ma c’è una ValSeriana nascosta, che culla i tuoi pensieri dopo giornate di lavoro stressante. Ed è in quel mondo parallelo fatto di angoli d’ombra, viste dall’alto sulla civiltà agitata, faggi e castagni, cappellette degli alpini e santuari solitari, che si nascondono i ciclisti della Valle. Ed è lì che scappo appena posso.

> ISPIRAZIONE  | Boccola – Selvino <

Parto molto presto, come orario e sul calendario. Sono le 6:30 gelide di un 12 marzo, che per me è già speciale. Oggi non ho pretese, solo puntini immaginari da collegare con l’unica matita che segue la mia creatività senza domande. Serve una scintilla per accendere la miccia e riscaldare quest’alba. La trovo ammirando i quadranti del Fanzago, nella quiete dormiente di Piazza Orologio a Clusone. La lancetta del sole mi concede ben 12 ore di luce. Posso andare.

Città Alta – Bergamo

Scendo rapido e indolore la ValSeriana. L’aria frizzante, il traffico blando del sabato mattina e il profumo accogliente del pane caldo riesumano pensieri assopiti da tempo. Bergamo mi accoglie e mi proietta nel mondo dei grandi. Il rinnovato Gewiss Stadium dell’Atalanta grida al sacrificio: “la maglia sudata sempre”. Oggi la mia non lo sarà, così come le quattro paia di calze indossate, ma la fatica di certo non mancherà. L’Accademia Carrara inaugura il festival delle salite. Supero la Chiesa di Sant’Agostino e i primi joggers fino alla chiesa di San Lorenzo alla Boccola. Ed è ciclismo vero. Un piccolo muretto non riesce a separare la mia vista dai dolci pendii di Valverde. E non parliamo dell’embatido spagnolo, perché qui l’asfalto ripido urla un solo nome: Fausto. Tengo le ruote di Masnada, come lui teneva quelle del fenomeno Pogačar all’ultimo Giro di Lombardia, e dopo un arco, scollino in bocca a La Marianna. La bici curva da sola mentre mi godo la vista sulla Città Bassa, che brulica come un formicaio. Meglio fuggire per la via vecchia fino ai prossimi tornanti più dolci ma persistenti.

Da Nembro verso Selvino, l’immenso monumento a cielo aperto al ciclismo bergamasco. Diciannove tornanti che in undici chilometri omaggiano gregari e capitani della nostra terra, umili e caparbi. Il tornante, come un esame di coscienza, ti costringe a rilanciare in piedi sui pedali e a osservare la strada già accumulata nelle gambe, finché non diventa un serpentone di consapevolezza. «Agile agile, sempre agile. Lo scatto tienilo per quando gli altri saranno stanchi», mi ha sempre consigliato Attilio Rota, ex professionista di Clusone, a cui è dedicato il tornante numero 15. «Poche chiacchiere e menare», recitava invece Felice Gimondi. Poco dopo il suo tributo, compare la cresta di Lego colorati di Selvino.

> SANA SOLITUDINE | Cavlera <

Dopo una discesa cauta e fresca da Ganda, sono già ai piedi della prossima salita, che mi piace assai. In poco tempo mi avvolge una bolla di serenità. Certo, nulla è regalato a questo mondo. Cavlera non perdona e ti tassa immediatamente con 100 metri duri di lastricato fino alla chiesa di Santa Maria Assunta. E continua a farlo anche sui primi tornanti d’asfalto con pendenze perennemente sopra al 10%. In poco tempo stai pedalando sui tetti della Vertova bassa, come in un parkour su due ruote e con il fiatone. L’inclinometro legge quasi 20% e il tuo volto si avvicina all’asfalto. Quasi lo respira, e sa di libertà. Libero da quel brusio impercettibile del fondo valle, che sembra già lontanissimo. Qui è un altro mondo, fatto di prati ripidi, muretti a secco, Pandini, arnie e baite in ghingheri antichi. Quando lo pneumatico tocca il cemento grossolano, i pascoli diventano ondulati e dolci. La strada no. Ma quando spiana, i monti aspri si scorgono solo in lontananza e la ValSeriana è “sparita”. Potresti essere ovunque.

> COMPAGNI FEDELI | Bani – Novazza <

Ritrovo la ValSeriana dopo un discesone rincuorante. Come lo sono il secondo paio di copriscarpe che mi porta mio nipote Francesco. Lo è anche il suo ritmo che mi scorta fino a Ponte Seghe di Ardesio. Lo stradone che sale a Valcanale è di un’altra pasta, più aperto e roccioso. Il Monte Secco, il Fop e infine il Pizzo Arera sono presenze imponenti che fanno capolino dietro alla nuvoletta di fumo dei nostri discorsi. Poco dopo la località Albareti, con i suoi venti abitanti (!) e un cuore in pietra custodito da case di villeggiatura, abbandoniamo la strada maestra e torniamo a salire più decisi in direzione nord. I pini e le rocce rossastre di Verrucano Lombardo ci accompagnano nel silenzio dei Bani di Ardesio. Con il cielo grigio e la fame del mezzodì, l’atmosfera acquista la desolazione tipica dei paesini di montagna. Oltre al profumo della polenta che dalla finestra di una cucina avvisa il circondario che è quasi pronto. Noi ci accontentiamo di una bella fontana scavata nella pietra, prima di scorrere velocissimi in un traverso bucolico e quasi incontaminato fino al bivio per le vecchie miniere di uranio di Novazza. Negli occhi la lontana Gromo e la salita ai suoi Spiazzi (questa oggi me la risparmio). Noi pieghiamo a destra e non incontriamo nessuno mentre sfrecciamo a Novazza, frazione di Valgoglio. Hanno tutti i piedi sotto al tavolo.

> GUARDIANI SILENZIOSI  | Valzurio – San Lucio <

Ringrazio Franci, che sfreccia anche lui verso un piatto caldo. Io lo faccio, ma con più calma. Lent ma seguent, mi alzo sui pedali e inforco la salita verso Valzurio. La stanchezza inizia a farsi sentire, ma gli orizzonti di casa vengono in aiuto. Molti anni fa, mi è stato presentato “l’Indiano”, che si cela nel profilo increspato del monte Vaccaro. Come molte cose, solo chi vuole vederlo riesce a scrutare il suo naso pronunciato e la sua fronte che sfuma in un trionfo di piume verde scuro. Sul monte opposto invece c’è una torretta di guardia, che cura gelosamente le pendici del Pizzo Formico e la preziosa fonte di Sales.

Simone con Paolo Savoldelli, Baita Valle Azzurra – Oltressenda Alta

Tutto ciò avviene alle mie spalle, mentre arranco oltre Nasolino, verso la Regina delle Orobie, molto più in là a Nord Ovest. Le mie spalle sono coperte (e spesso non ce ne rendiamo conto), protette da guardiani silenziosi che non chiedono nulla in cambio. Così barcollo ma non mollo, arranco ma scollino. La discesa è stretta, i laghetti azzurri in basso e la chiesetta di Santa Margherita che attende davanti. Quando stamattina ho superato il tornante numero 3 del Selvino, intitolato al Falco Paolo Savoldelli, già pregustavo questo momento. Paolo mi accoglie alla Baita Azzurra con birra media, gnocchetti all’ortica e strudel di Anna. Uno sguardo alle maglie rosa appese e sono come nuovo, più o meno. Ora però gioco veramente in casa. La breve scalata di Senda mi riporta a Clusone, dove mi aspetta la mia salita, il San Lucio. Da 600 a 1000 metri di quota in 4 km di puro sacrificio, alleviato però da qualche scorcio impagabile sull’altopiano di Clusone. I campi verdi e rilassati de La Spessa, che circondano l’agglomerato di case capitanato dal campanile della Basilica e dai quali sorgono il monte Crosio e il monte Polenta, rimasugli di dolomia principale e souvenir dell’azione del ghiacciaio camuno. E la cornice è chiusa dalle creste di Bares che da Parè graffiano il cielo fino alla Regina. Eh già, altro che Roma. Tutte le creste portano alla Presolana. Conosco bene questa salita e so quando stringere i denti (quasi sempre) e quando rifiatare (quasi mai), nei pressi della chiesetta di Beur e dopo il bivio per il roccolo Zuccone, celebre per le sculture di legno di Giannino.

San Lucio – Clusone

> UNO SGUARDO AL DOMANI | Passo della Presolana – Val di Scalve >

Sarebbe ora di tornare a casa. Ma dopo averla sfiorata con lo sguardo, sento di dover chiudere il giro ai piedi della Presolana. Mentre racimolo le ultime energie rimaste, mi saluta qualche reduce dalla giornata sugli sci al monte Pora, al Donico o a Colere. D’altronde abbiamo tutti goduto della bellezza di queste  Magnifiche Valli e della loro voglia di restare genuine e cristalline. Sto già pensando alla prossima fuga. Dal passo della Presolana sporgo la testa sulla sponda, che con pendenze vertiginose ti proietta in Val di Scalve. Qui c’è un’altra salita che non vedo l’ora di riaffrontare, quando l’Orologio Planetario di Clusone indicherà mesi più caldi. Il Vivione aspetta, taciturno e paziente, come molti altri angoli della nostra terra ancora da scoprire. Bastano due ruote e un po’ di fantasia.

 

Articolo di Simone Trussardi e foto di Armin Hadziosmanovic per VALSeriana & Scalve Magazine – estate 2022

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I Pinguini hanno preso il volo https://www.valseriana.eu/blog/i-pinguini-hanno-preso-il-volo/ Wed, 22 Dec 2021 08:56:39 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=51682 I Pinguini Tattici Nucleari non mi piacciono proprio! Per me l’unica rock band bergamasca (albinese) che merita attenzioni sono e saranno sempre i Verdena. Quei singoli stupidini ed enfatici non mi hanno mai fatto venire voglia di ascoltarli sul serio; poi quel nome così assurdo, da gruppetto liceale (è preso da una birra). Ci mancava la partecipazione trionfante a Sanremo, per farmeli odiare del tutto.

Ma lo sappiamo, solo gli stupidi non cambiano mai idea. A volte, la bellezza (e l’allegria che ne consegue) si scopre per dovere, per lavoro, o per un caso fortuito. E allora ho scoperto che c’è qualcosa di più dietro alla stupidera da band mascotte del politicamente corretto di matrice Rai.

I Pinguini a Sanremo


Innanzitutto le persone
. C’è un cocktail bergamasco niente male in questa comitiva di ragazzi nati tra il 1991 e 1994. Il cantante e compositore di testi e musiche, Riccardo Zanotti, è di Albino (Desenzano), la prima chitarra Lorenzo Pasini di Villa d’Ogna, l’altra chitarra Nicola Buttafuoco e il tastierista Elio Biffi sono di Pedrengo, il bassista Simone Pagani è di Bergamo, il batterista Matteo Locati di Arcene.

Di chiacchiere se ne sono scritte un’infinità, le comparsate in tivù sono regolari, il nome è una certezza, anzi, ora Zanotti (27 anni) produce le nuove leve della canzone bergamasca, se così si può dire. Ma forse conviene fare un salto indietro, tornare alla musica e ascoltarla davvero, come non va più tanto di moda fare. Passare disco per disco, canzone per canzone, scrutando i testi, con le orecchie tese per capire il segreto, se c’è, di questi giovanotti che hanno preso il volo.

Sono partito dall’inizio, dalle filastrocche de Il re è nudo, disco del 2014. Subito mi si è fatta incontro la verve del cantante e leader, che tra cantilene e passaggi quasi parlati riesce a sorprendere: Zanotti sa costruire un certo pathos, nell’attesa della parola di fine verso che faccia rima in modo più o meno ortodosso. Non sempre i mezzi sono all’altezza delle aspirazioni, ma la ricerca di un lessico nuovo per il linguaggio pop è evidente e apprezzabile. Qualcosa che ridia importanza a ciò che si canta, a costo di sfiorare il non-sense.
Testi come collage, un cilindro pieno di sorprese e nomi, giochi, cortocircuiti verbali. Vasco Brondi e Vasco Rossi, i Coldplay che suonano sempre gli stessi accordi, e via cantando. Voce filtrata da folletto blaterante che però nei suoi continui scherzi carnevaleschi (e le normali ingenuità
dell’età) sa consegnarci gentilmente qualche scintilla di senso e sentimento, pur tardoadolescenziale (“Quando avremo sfamato il più povero dei poveri / Allora abbandonerò la chitarra”).

Musichine tra il folk e il cantautorato nostrano, ben mescolate ad arguzie quasi-prog, come una versione carillon dei Genesis, con qualche assolo saporito. Gallerie di personaggi un po’ deformi, figurine dall’album di una giovinezza appassionata (da De André a Klaus Kinski), in cerca di una chiave di lettura per armonizzarli in un discorso che vorrebbe essere autoriale. Ci sono gli elementi chimici per il botto pop, ma manca ancora una reazione efficace per farli deflagrare.

Un notevole salto arriva con il secondo disco Diamo un calcio all’aldilà, e lo si sente subito. La produzione ruvida del brano d’apertura lascia ben sperare, accostata alle più triviali citazioni televisive (la famosa “borra” della Clerici). La tripletta iniziale è già un mezzo cappotto, tra svisate rock, melodie country in lingua inglese e un bell’assortimento di distorsioni e assoli, in accoppiata con i consueti scioglilingua di Zanotti, cadenze dolci che ci cullano ed escandescenze sempre un po’ cialtrone. Ancora non facile individuare il bandolo della matassa per quanto riguarda le parole, ma questa musica funziona a prescindere, il talento da hit è evidente. Perfetta la scheggia pokemon-punk di Sudowoodo, poi tocchi delicati, scariche di energia e qualche pungolo, fino alla grandeur del crescendo da stadio Le Gentil, ben innervata di distorsioni, saliscendi melodici e anche qualche parola più matura: “La paura ti definisce”. I ritmi reggae di Me Want Marò Back, venati di una simpaticissima polemica politica camuffata nelle
pieghe di una lingua mista, chiudono un disco davvero fresco.

I Pinguini con il sindaco di Bergamo Giorgio Gori


Due lavori di sana gavetta
(ma già sotto l’egida Sony), macinati rapidamente nel giro di un anno e mezzo. Il terzo (Gioventù brucata) arriva nel 2017 e la band inizia a raccogliere consensi anche fuori dai circuiti strettamente indie. Nell’estate suonano al festival Sziget, il singolo Irene fa breccia nelle radio durante la successiva estate. Il disco è un bel saggio di musica pop, agilissima, ma corroborata da una certa sapienza musicale che non può non destare attenzioni. Il saettare delle chitarre ormai non sorprende più, ma si conferma ad alti livelli, così come il genuino buongusto per gli arrangiamenti ricchi, ammalianti. Destano invece maggior sorpresa
certe atmosfere intense, cadenze rock irresistibili come quelle di Pula. Il non-sense reiterato nei testi alterna parti che sembrano puri riempitivi a momenti più semplicemente banali: il tentativo di rifare gli Elii in salsa un po’ parrocchiale (anche i siparietti parlati!), e tutti quei giochini di parole un po’ fine a se stessi (“Ponzio Pilates” etc.), non alletteranno sicuramente gli orecchi più esigenti. Gli altri, probabilmente non si preoccuperanno
nemmeno delle parole. Mancano degli spunti tematici davvero interessanti, e se a questo ci aggiungiamo il tentativo di essere sagaci… bè, meglio concentrarsi sulla musica. L’unico pezzo degno dei maestri della canzone
scorretta è Ninna nanna per genitori disattenti.

Poco male, ci piace perderci nel “pastiche” di stili che qui si amplia ulteriormente, nella cialtroneria come credo artistico, nei fraseggi poderosi di Gigi cinque ottavi: melodie alla Max Pezzali o cantilene sghembe, tempi dispari ed effetti sonori a piene mani. Fa capolino un citazionismo anche musicale (un assolo che richiama una canzone dance, mica male; e a seguire la chitarra acustica che rifà Smoke on the Water) che è sicuramente un messaggio d’amore alla fetta più colta del loro pubblico. È chiaro insomma, anche per i neofiti del gruppo (come me fino a poche settimane fa), cosa abbia portato questa band bergamasca alla ribalta nazionale. Nel 2019 arriva un titolo che è antifrasticamente antesignano di quel che sarà: Fuori dall’hype. Tutto l’armamentario stilistico si piega al servizio di canzoni meno rock, più spendibili nei panorami attuali. Verdura, Sashimi, melodie più agrodolci e suggestive, un pop speziato ma comunque confortevole anche per il pubblico generalista, una maturazione personale che rende credibile lo Zanotti in versione menestrello “romantico” ma sempre un po’ cialtrone. Ritmi ballabili (si veda il pezzo sanremese), la voce più sicura, qualcosa da dire, un vissuto più interessante da cantare. La quadratura del cerchio, sublimata un anno dopo al teatro Ariston.
E tutto il resto, più che cronaca, è già storia.

 

Articolo di Fabio Busi per
VALSeriana & Scalve Magazine – inverno 2021-2022

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Grem Bike Hostel, la tua vacanza active https://www.valseriana.eu/blog/grem-bike-hostel-la-tua-vacanza-active/ Fri, 05 Feb 2021 14:52:55 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=46087 Matteo Santacroce è il titolare del Grem Bike Hostel, un ostello nato nel 2019 a Premolo con un carattere forte e in linea con le ultime tendenze del turismo: una struttura ricettiva dedicata ai ciclisti e agli amanti delle attività outdoor.

Il Grem Bike Hostel si trova in un punto panoramico eccezionale, con uno sguardo privilegiato sui tramonti che dipingono l’altopiano di Clusone e la Presolana, con le sue infinite sfumature di rosa. Dalla terrazza dell’ostello si può tirare un respiro profondo e avere la sensazione di essere in un posto magnifico, godere di un orizzonte vasto che invita l’ospite ad avventurarsi alla scoperta di quel paradiso naturale.

Perché la ValSeriana?

In ValSeriana Matteo, milanese, ci è arrivato da villeggiante. 11 anni fa ha conosciuto Giulia, la compagna con cui ora gestisce la struttura, che aveva una casa di montagna a Fino del Monte e da allora ha sempre frequentato la destinazione: “Per me la ValSeriana era il luogo di relax, rappresentava il momento della vacanza, il posto in cui ritirarsi dalla frenesia della città e dedicarsi con pigrizia alle belle abitudini che scandiscono le ferie. Giretto al Monte Pora, al Salto degli Sposi, sempre gli stessi posti insomma, senza mai chiedersi cosa si nascondesse al di là di quelle cime note e rassicuranti. Sicuramente un comfort zone che ci faceva stare bene”.

Giulia e Matteo

Ad un certo punto il cambio di indole e di prospettiva, la voglia di rimettersi in gioco, di inventarsi una nuova vita in quel contesto così accogliente che per anni aveva accolto le loro fughe dalla città. Per Matteo e Giulia inizia un percorso di tentativi, di approcci a nuovi luoghi, di sfide e incontri fortunati, di connessioni con chi in questo posto già ci viveva. Una ricerca che Matteo ripercorre volentieri “La prima opportunità di cambiare vita si apre a Rovetta, quando per un cambio di gestione ci interessiamo a un negozio sfitto che rispondeva però poco alle nostre esigenze. Mi fa piacere che dopo la nostra rinuncia, quello spazio ha trovato un proprietario eccellente, di cui stimo molto la professionalità”. Si riferisce a Walter, giovane alla guida della Gelateria Sottozero Gelato & Cioccolato, una bellissima realtà dove qualità e innovazione si incontrano grazie a una visione all’avanguardia e un’attenzione incredibile al cliente.

Seguono altre occasioni e tentativi non andati a buon fine, come la partecipazione a bandi per gestire alcuni dei rifugi arroccati sulle Orobie. Certo è che quando ci metti testa e passione il destino a volte aiuta. “Frequentavamo spesso i Borghi della Presolana essendo di base a Fino del Monte e passavamo davanti a un locale chiuso posto in un angolo di Rovetta che ci affascinava molto”. Che sorpresa quel giorno che hanno trovato quel locale aperto, sull’insegna c’era scritto BlumInCi siamo ovviamente catapultati all’interno, diventando fin da subito clienti fissi e riuscendo a instaurare un rapporto di grande confidenza con il proprietario Dimitri. Il suo ruolo nella nostra storia è stato fondamentale, l’ago della bilancia, colui che ha sposato con entusiasmo il nostro sogno, riconoscendo la Nostra occasione

L’occasione

Dimitri aveva rapporti con Diego Morstabilini, coordinatore degli Alpini della zona 18 (quella dell’alta ValSeriana). In quel momento gli alpini avevano in gestione il Primulus, una grande struttura alberghiera a Premolo che stava diventando per loro un problema a livello di impegni e di manutenzione. Non ci mise molto a immaginare me e Giulia come la soluzione a queste difficoltà”.

Al primo sopralluogo un po’ di sconcerto ci fu, la location era molto grande, al primo impatto sembrava sovradimensionata rispetto ai piani che i due ragazzi avevano in testa. Ma in quegli ambienti ampi e in quel panorama splendido iniziavano a trovare spazio i grandi progetti di Matteo e Giulia: dar vita a una struttura ricettiva in grado di rispondere alle esigenze di un target abbastanza di nicchia come quello dei cicloturisti ma che allo stesso tempo rappresentasse un punto di riferimento per tutti gli appassionati di turismo outdoor.

Il Grem Bike Hostel

L’officina per e-bike

Abbiamo accettato la sfida, sistemato una parte delle camere, lavorato all’officina per e-bike da poco terminata per riuscire a caratterizzarci in modo originale all’interno dell’offerta della destinazione e offrire servizi adatti per chi vuole regalarsi una vacanza sulle due ruote.
Le idee sicuramente Matteo le ha molto chiare e ha dimostrato di sapere come muoversi. Il target che voleva raggiungere era giovane per questo la scelta dell’ostello, con grandi spazi in comune e la possibilità di godere di servizi offerti dai gestori oppure vivere una vacanza in piena autonomia.

Nel 2019 ha quindi avuto inizio questa grande avventura che nel pieno del suo corso ha dovuto fronteggiare un momento delicato e inaspettato come quello dell’emergenza da covid, proprio nell’anno in cui si sarebbero potuti raccogliere i frutti degli sforzi profusi per avviare l’attività.

Lo spirito però resta propositivo anzi Matteo, nonostante le incredibili difficoltà, sogna sempre in grande e nel 2020 oltre a ritagliarsi momenti per approfondire quegli angoli naturali estranei alla sua precedente vita da villeggiante, ha instaurato proficui rapporti con operatori che sul territorio si occupano di attività active come Paolo Cattaneo, accompagnatore di media montagna e Franco Zanetti, guida MTB, con il quale ha organizzato numerose uscite per i propri ospiti. Una condivisione di competenze e una rete di collaborazione che sta alla base del turismo del domani.

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Premolo
è un piccolo borgo residenziale fuori dai grandi flussi turistici della ValSeriana, se ne parla poco nonostante le grandi potenzialità a livello di rete sentieristica e gli angoli caratteristici che portano in dietro nel tempo. Da Premolo si articolano molti percorsi poco conosciuti ma davvero affascinanti come quello che porta in Leten e alle Baite de Sura.

Antica casa in loc. Bratte, Premolo

Matteo parte da qui, da quello che lo circonda e su cui immagina di costruire nuovi itinerari, cammini autentici. Perché per gli ospiti del Grem Bike Hostel immagina giornate diversificate, gite nei punti di maggiore interesse che rendono famosa la ValSeriana e degustazioni di prodotti tipici, alternate a uscite in luoghi inesplorati in cui lasciarsi abbracciare dalla natura.

 

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Questione d’amore https://www.valseriana.eu/blog/questione-damore/ Fri, 15 Jan 2021 18:02:55 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=45860 «Ho sempre amato la montagna perché la montagna per me è la libertà».
Mario Curnis parla seduto a questo tavolo di trattoria, pochi giorni prima del secondo lockdown di un tribolato 2020, che per fortuna è un parente povero del primo. La tragedia di marzo non si ripeterà nelle nostre valli. Curnis è uno dei più importanti alpinisti bergamaschi, è nato a Nembro 84 anni fa, appartiene alla vecchia guardia, non tanto per questioni anagrafiche quanto per il modo di intendere la montagna.

ALPINISTA PER VOCAZIONE

Curnis è sempre stato un dilettante, non ha mai accettato l’aiuto di sponsor, non ha mai fatto dell’alpinismo il suo lavoro. Un dilettante nel senso migliore del termine: l’alpinismo lo ha sempre vissuto per vocazione, per diletto. Nella vita, per tirare avanti, Curnis ha fatto il muratore, l’impresario edile. Con il suo lavoro finanziava le spedizioni in Himalaya, in America Latina, nei luoghi più distanti e impervi della Terra. Le preparava in casa, minuziosamente. Allestiva tende e campi in sala.

Mario Curnis – ph. Matteo Zanga

Curnis, perché la montagna?
«Ho sempre sognato due cose nella vita: la montagna e la libertà, cioè la possibilità di pensare e di fare quello che decidevo. In montagna la mia libertà si realizzava, mi sentivo libero di salire, di scendere, libero di decidere dove andare, di affrontare la sfida della cima oppure no, senza rendere conto a nessuno se non a me stesso. Ma con grande scrupolo».

Che cosa è la montagna?
«Potrei ripetere che per me è la libertà, una libertà profonda, che ha a che vedere con qualcosa di difficile, che non si conosce, magari di misterioso. Il bello della montagna non è tanto che faccio una parete difficile, supero un problema tecnico e nemmeno che arrivo in cima e guardo il mondo sotto. Il bello è quello che ho trovato dentro di me. Non ho mai provato un senso di conquista, no».

Curnis e Moro in una foto d’archivio

Lei ha conquistato l’Everest a 64 anni, un record. Che cosa ha provato?
«Quando siamo arrivati in cima, io e Simone Moro ci siamo stretti la mano, è stato il momento più bello. Nient’altro. In realtà quello che conta è tutto quello che provo, che penso mentre salgo, mentre guardo la roccia, mentre mi arrampico, mentre sento la neve, il gelo, mentre monto la tenda… fino alla cima».

Ha sempre finanziato le sue spedizioni di tasca propria…
«Sì, anche questo significa essere libero. Non dovevo niente a nessuno, non dovevo portare a casa risultati strabilianti per fare contento lo sponsor. Ne ho visti morire tanti di amici alpinisti che hanno fatto cose che in quei momenti si sarebbero dovute evitare, rinviare. Credo che anche per questo sono ancora vivo. E per mia moglie».

Ci spieghi.
«Mia moglie Rosanna è l’unica morosa che ho avuto, io pensavo soltanto al lavoro e alla montagna. Lei aveva vent’anni, io trentaquattro, cinquant’anni fa. Voleva diventare la mia donna, io le ho detto: “Guarda che io non smetterò mai di andare in montagna”. Lei mi ha rispettato e anche a lei devo il fatto di essere vivo».

Perché?
«Perché la moglie di ogni alpinista è importante; quando partivo per una spedizione non sapevo se sarei ritornato e per mia moglie era lo stesso. Ma non mi ha mai ostacolato, sono sempre partito tranquillo. E la tranquillità per un alpinista è fondamentale. Se non sei rilassato al cento per cento, se hai problemi in famiglia, tutto diventa più difficile. Pericoloso. Quando abbiamo avuto il nostro primo figlio, Antonio, io ero sul Lhotse, era il 1975. Lei sapeva che per me era una spedizione molto importante, che ci tenevo tanto. Mi ha detto di andare via tranquillo, pur sapendo che sarei tornato, se tutto fosse andato bene, quando il bambino avrebbe avuto già due mesi. Non è stato facile per lei, allora non c’erano computer e telefonini… Io le sono tanto grato».

L’alpinismo per lei è stato anche un impegno economico. Che cosa diceva sua moglie?
«Una spedizione mi costava cento milioni di lire, potevamo comperare un appartamento. Rosanna ha accettato anche questo».

Lei ha partecipato a spedizioni con Messner.
«Sì, al Lhotse c’era anche lui. Quando nacque Antonio fu lui che arrivò al campo sventolando un foglietto… era il telegramma di mia moglie, arrivava un mese dopo che l’aveva spedito. Io ero un orso, i compagni mi chiamavano proprio così. Ma quella volta, in Nepal, Cassin mi convinse a comperare una pelliccia da regalare a mia moglie».

Che tipo è Messner?
«Un uomo di particolare valore, intelligente. Avrebbe fatto bene qualsiasi cosa avesse scelto nella vita».

È vero che lei tiene un diario?
«Sì, sempre, scrivo molto. È importante scrivere i diari, bisogna annotare quello che succede nella vita, quello che si pensa. A volte li rileggo e mi sorprendo di avere avuto certi pensieri. Lo faceva anche mio padre, ma un giorno li mise tutti nella carriola e andò a bruciarli, tutti. Mia madre ci rimase molto male. Quando vide che anche io tenevo il diario, mi chiese di non fare come mio padre. Penso che io non li brucerò».

Lei partecipò alla prima famosa spedizione italiana all’Everest organizzata con l’appoggio dell’esercito, nel 1973.
«Sì, con tanto di aerei Hercules, una cosa enorme. Ma io non arrivai in cima, mi fermarono a 7.900 metri. Avevo litigato con il patron dell’iniziativa, il famoso conte Guido Monzino, un uomo ricchissimo a cui tutti obbedivano ciecamente, ma in maniera ipocrita. Ma io no e lo criticai apertamente, questo non venne molto apprezzato».

Nel 2011 lei si ritirò dal mondo, andò sul colle sopra Rovetta ad allevare capre.
«Ci rimasi per un anno. Dovevo ricostruirmi dentro; il fallimento della mia impresa edile era stato un colpo durissimo per me. Dal punto di vista economico ero distrutto, non avevo più niente, ma non era tanto questo che mi faceva male. Caddi in una depressione e in quel periodo soffrii anche di tumore alla prostata, un tumore aggressivo. Non ne sapevo niente delle capre che erano di mio cognato: lui non riusciva più a occuparsene. Fu così che mi offrii e pian piano imparai. Mia moglie veniva a trovarmi tutte le settimane, camminava un’ora per arrivare e piangeva quando andava via.
Avevo cinquanta capretti, a un certo punto, e le capre non avevano latte sufficiente allora glielo davo io con il biberon. Ho avvertito quanto quegli animali mi volessero bene e questo mi ha aiutato tanto. Un anno lassù e mi sono rialzato. Il tumore è scomparso, per sicurezza ho fatto soltanto un ciclo di radioterapia alla Gavazzeni, una volta sceso. E sa che cosa penso? Che se fossi rimasto lassù con le capre forse oggi sarei ancora più felice»

Lei fece anche una seconda spedizione all’Everest.
«Sì, ma date le condizioni capii che non si poteva andare oltre quota ottomila. È stata una cosa molto brutta, arrivai su all’ultimo campo, dissi ai due miei compagni di tornare giù ma loro non mi ascoltavano, sembrava non si rendessero conto. Tirai fuori il cartoncino che si tiene in tasca quando si va alle alte quote, con delle semplici operazioni aritmetiche e i risultati: ti serve per capire se ci sei ancora con la testa. Ero ancora a posto. Tentai di convincerli e poi scesi, andai giù dal canalone di ghiaccio vivo. Uno dei due compagni non ce la fece».

Lei ha compiuto imprese invernali da record, per esempio ha fatto lo Scudo del Paine in Patagonia. Ed era stato il primo a fare la Nord dell’Adamello in inverno nel 1963 e finì sui giornali.
«Sì e mio padre commentò a chi gli fece notare che suo figlio era sui giornali: “Be’, un bambo en famea an ghé l’ha toccˮ»

Che consiglio dà a chi va in montagna?
«Non andare mai soli, mai. Anche se si va a fare il solito sentiero che si conosce. In montagna basta niente, scivoli, ti rompi una gamba e poi quando ti trovano? No, sempre in due. E se vai a fare il giro dietro casa portati sempre un fischietto, può essere meglio del cellulare per chiamare i soccorsi. Un’altra cosa: in montagna bisogna restare sempre concentrati. Quanta gente ho visto morire nei tratti più facili, magari quando erano ormai a due passi dalla fine del sentiero. Non bisogna mai sottovalutare la montagna, nemmeno il sentiero più semplice».

 

 

Articolo di Paolo Aresi Per VALSeriana & Scalve Magazine

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Biscotto Aliciano, un dono alla comunità https://www.valseriana.eu/blog/biscotto-aliciano-un-dono-alla-comunita/ Sat, 21 Nov 2020 14:10:06 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=45610 Mi perdo quasi sempre quando vado ad Alzano Lombardo. Ogni volta la sensazione non è quella di spaesamento ma di stupore. Il centro storico è un piacevole articolarsi di viuzze che restituiscono scorci suggestivi e aperture inaspettate. Come quella sulla piazza della Basilica di San Martino, una facciata imponente ma racchiusa in uno spazio intimo, un’immersione nella bellezza che invita a varcare il portone e perdersi nella chiesa che “vive” insieme al Museo e alle annesse Sagrestie fantoniane.

 

L’ARTE DEL PANE DI TRIONFINI
50 anni di ARTE BIANCA

Ma, insieme alla piazza della Basilica, fra le vie imperdibili di Alzano consiglio di segnarvi via San Pietro, al civico 3, quello dell’Arte del Pane di Trionfini. In mostra qui sono capolavori d’arte bianca: pane, focacce, pizze e soprattutto biscotti. La vetrina è di quelle tipiche di bottega, prodotti curati sotto una bella insegna storica. Dentro l’ambiente in legno e marmo ospita prodotti da forno di ogni tipo e soprattutto restituisce quell’accoglienza che trasforma ancora oggi “l’andare a prendere il pane” in un momento di incontro.

La vetrina del panificio Trionfini, Alzano Lombardo

Dietro a questo ben di Dio c’è Giuseppe Trionfini titolare dell’attività, riconosciuta lo scorso ottobre tra le attività storiche di Regione Lombardia, con una sede anche a Ranica. La storia del negozio è di quelle che appassionano, che dietro alla semplicità del quotidiano nascondono progetti dalla tradizione e dalla cultura locale.

 

GIUSEPPE TRIONFINI, IL MASTRO PASTICCIERE

Giuseppe mi aspetta nel suo laboratorio, poco distante dal negozio. Sono le 11.30 e ormai l’attività è terminata, le macchine sono ferme, tutto è pulito a specchio. Eppure anche bendati, sarebbe difficile non capire di essere in un luogo che sforna dolcezza, tanto è inebriante il profumo.
Poi passo nei negozi e verifico consegne e ordini ma la giornata è quasi terminata” esordisce Giuseppe… e vorrei ben vedere visto che lui varca la soglia alle 3.00 di mattina.

Giuseppe fa questo mestiere da 47 anni. Il nonno nel 1947 aprì il panificio a Dossena, paese originario della famiglia Trionfini, poi trasferito ad Alzano Lombardo nel 1970 e passato sotto la guida del papà Andrea. Ora è Giuseppe insieme al fratello Diego a portare avanti con orgoglio l’attività. Ha due figli, di cui si dice molto orgoglioso, che hanno seguito strade diverse, uno enologo e uno ingegnere, ma che trovano sempre il tempo di dare una mano nel luogo in cui sono cresciuti e al quale sono rimasti affezionati.

I Trionfini: da sinistra Giuseppe, il padre Andrea e il fratello Diego

Trionfini lega da sempre il suo nome a un prodotto specifico: i biscotti. “Un mio amico artista di Dossena, Filippo Alcaini nel 1979 dedicò ai Biscotti Trionfini queste illustrazioni con poesie in dialetto”. Mi mostra una stampa mentre ne parla, ritrae un mastro pasticcere che lavora con ingredienti a km0.
E non poteva che essere un biscotto il prodotto attorno cui Giuseppe ha costruito un attento progetto di valorizzazione della cultura gastronomica locale che incontra una più ampia promozione territoriale.

Inizia quindi la storia del Biscotto Alicano, prodotto a cui Giuseppe vuole legare il suo nome ma allo stesso tempo quello di Alzano Lombardo, un biscotto che racconta una storia di lavoro e sacrifici, rapporti curati con passione, scambi sinceri. Una storia che ha nel dono il suo filo conduttore.

 

IL DONO DELLE MONACHE

Infornata di Aliciano

Fino a pochi anni fa davanti al laboratorio c’era il Convento della Visitazione che ospitava suore di clausura con cui ho sempre avuto rapporti ottimi. Ci scambiavamo prodotti e favori: loro mi portavano uova fresche, il coniglio, frutti, soprattutto nocciole e io ricambiavo con consigli su ricette come quella del pane in cassetta, ospitavo la suora laica Margherita per agevolare il loro lavoro quotidiano, facevo tostare le nocciole, cuocere le mele, mettevo a disposizione il mio forno per i loro manicaretti”. Mentre ne parla si capisce come per Giuseppe il rapporto con le monache fosse importante, sincero e fatto di piccoli gesti. “Poi un giorno la madre mi consegnò un biglietto con scritta la ricetta del loro biscotto, quello fatto con le nocciole. Lo misi in un cassetto e non ci prestai troppa attenzione fino a quando il convento venne chiuso nel 2015”. Consapevole di aver ereditato un piccolo pezzetto di storia di Alzano Giuseppe prende in mano quella ricetta e le dà una nuova vita: farine grezze, burro, uova e nocciole, nessun aroma artificiale e conservante aggiunto.
Il biscotto era buono, l’intuizione ancora di più.

Ho seguito la ricetta originaria, era eccezionale così. Ho solo cercato una forma nuova perché le suore li facevano con il cucchiaio, ma ovviamente io non potevo permettermi tutto quel tempo nella preparazione. Ne è nato un rigatone facile da realizzare con la saccapoche ma che allo stesso tempo ha una valenza simbolica ricercata, un richiamo ai campi di grano arati rappresentazione di fertilità già noto in tempi antichissimi”. Una rivisitazione di un prodotto antico con un rimando nella forma a simbologie millenarie nato dalle mani di un alzanese che ama la sua città non poteva che avere un nome storico. “In epoca romana i territori dal monte Frontale al fiume Serio erano sotto il dominio della Gens Alicia da cui deriva il primo toponimo della cittadina: Praedium Alicianum (podere Aliciano) che sarà poi Alzano. Senza andare a inventarmi nulla di nuovo il nome per il biscotto ce lo ha fornito la storia: Aliciano”.

Aliciano e altre dolcezze

IL DONO DEL BISCOTTO ALLA COMUNITÀ

Il biscotto piaceva ed era sempre più richiesto. Ma un nuovo tassello della sua vicenda viene scritto grazie a un altro incontro fortunato: quello con il sindaco Camillo Bertocchi.

La svolta ha una data ben precisa: il 7 giugno 2017. “Mi chiamò il sindaco chiedendomi se in occasione dei festeggiamenti per il 90° anniversario potevo andare in comune, durante la cerimonia ufficiale, per presentare il biscotto e la sua storia. Ci teneva che l’Aliciano diventasse il prodotto tipico di Alzano”.

Da quel momento anche Giuseppe prende maggiore consapevolezza delle potenzialità di questo dolce campo arato e inizia a lavorare sul packaging per fare in modo che la confezione fosse un ulteriore richiamo al legame con il territorio. Nasce così una collaborazione con alcuni amici artisti e disegnatori che lavorano sul soggetto delle scatole di latta: prima stampe storiche come la piazza con l’antico Palazzo della Ragione, il Monastero della Visitazione e altri scorci di Alzano, poi la “natalizzazione” della scatola (per la prima edizione natalizia viene selezionato un suggestivo paesaggio innevato di Brumano, località alzanese che a Giuseppe sta particolarmente a cuore) e ancora la collaborazione con il Museo d’Arte Sacra San Martino. La scelta dei soggetti lascia intendere una profonda finezza culturale del nostro mastro pasticcere.

La prima scatola di Aliciano con il Porteghèt, antico palazzo della Ragione

Quello di cui vado molto fiero è la collaborazione nata con gli alpini di Alzano che poi si è allargata ad altri gruppi del territorio. Ho fatto diverse edizioni dell’Aliciano dedicate a questo corpo di volontari in cui credo molto, apprezzo il lavoro che svolgono e la dedizione con cui lo portano avanti”.

Affascinante la storia, belle le scatole, ma Giuseppe ci tiene davvero a sottolineare un’altra cosa. Quello che lo rende più orgoglioso è che il suo prodotto è andato in giro per il Mondo perché gli alzanesi hanno colto al volo le potenzialità di questo biscotto, si sono riconosciti in esso, lo regalano ad amici e parenti lontani per condividere un po’ dell’identità alzanese. “Che sia per altri biscotti, per la pasta, per gomitoli di lana, chiodi e attrezzi da officina, la scatola può avere una vita anche oltre la sua funzione originaria”.

 

IL DONO PER LE SANTELLE

Che questo panettiere sia legato alla sua cittadina in modo sincero e profondo è chiaro ma ancora più palese quando racconta l’ultimo progetto a cui sta lavorando: “Il comune di Alzano ha presentato poco tempo fa uno studio sulle tantissime santelle che costellano il territorio. È un lavoro importante, soprattutto perché ne ha messo in luce la precarietà dello stato di conservazione”. Ecco allora sfornata una nuova scatola di Aliciano con la santella di Brumano. “La metà del ricavato dalla vendita di queste scatole sarà destinato ai lavori di ristrutturazione di questo piccolo oggetto d’arte che appartiene alla comunità e che è una testimonianza storica da preservare”.

Scatola dedicata alla santella di Brumano

Trionfini è davvero un panificio storico, e l’Aliciano un biscotto per la comunità, un dono al territorio, un prodotto che rispecchia a pieno i valori della cultura gastronomica locale basata sul rispetto delle materie prime, su antiche lavorazioni rivisitate con un pizzico di innovazione.

Ah, e se ve lo state chiedendo, l’Aliciano è un biscotto davvero squisito.



INFO E ORDINI
035.511038
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Ovunque protetti https://www.valseriana.eu/blog/ovunque-protetti/ Mon, 21 Sep 2020 13:51:38 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=43779 A fine febbraio abbiamo tutti detto, letto e scritto che la ValSeriana e la Val di Scalve non si sarebbero fermate. Sappiamo tutti che risvolti tremendi hanno avuto, nel giro di pochi giorni quei giustificati slanci ottimistici. Eppure, percorrendo a ritroso questi mesi surreali, non possiamo che confermare quel messaggio, rileggendolo in chiave diversa.

Tutti abbiamo sofferto, la maggior parte di noi bloccata in casa dal lockdown. Qualcuno invece ha avuto l’onere di soffrire correndo, macinando chilometri dentro e fuori la Lombardia, mantenendo vivi quei servizi essenziali che sono alla base della rete sociale di una comunità.
I molti gruppi territoriali di Protezione Civile, le associazioni di volontariato, il Corpo Volontari Presolana, la Croce Blu di Gromo, la Croce Verde di Colzate: sono loro che hanno permesso alle nostre Valli di non fermarsi.

Sino a pochi giorni prima della tremenda irruzione del Covid 19 fra gli impegni istituzionali c’erano (e ci sono) pasti da distribuire agli anziani, persone da accompagnare per cure in ospedale, sentieri in quota da manutenere, manifestazioni cui prestare assistenza o piste da sci sulle quali assicurare soccorso. Da un giorno con l’altro centinaia di volontari sono diventati, loro malgrado, protagonisti di un’emergenza sanitaria mai sperimentata prima.

«È l’arte di reinventarsi ogni giorno che rende questo lavoro così appassionante – esordisce Valerio Zucchelli, coordinatore della Croce Blu di Gromo in cui opera da 37 anni – Non ci si stanca mai perché c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare». È con questo entusiasmo, con questa voglia di mettere al servizio delle Comunità Montane, dei Comuni e della popolazione le proprie competenze che è iniziata l’avventura degli operatori di primo soccorso e dei volontari durante l’emergenza.

Parlando con loro, si percepisce tuttora una frenesia di fondo e l’impossibilità di capire cosa stesse succedendo nelle Valli: «Abbiamo estratto corpi da macerie  durante le più grandi calamità naturali europee e operato in situazioni di guerra – spiega Francesco Rossoni, nella Protezione Civile di Alzano Lombardo dal 2003 e presidente dal gennaio 2020 -, ma eravamo pronti. Sapevamo già prima di partire come ci saremmo dovuti muovere sul campo. Nei giorni a cavallo tra febbraio e marzo, invece, nessuno aveva idea di cosa stessimo andando ad affrontare».

La difficoltà iniziale di dare risposte alle innumerevoli richieste di aiuto è il tratto comune e distintivo: l’urgenza di reperire dispositivi di protezione individuale, saturimetri e, soprattutto, ossigeno. «Le telefonate delle persone che chiedevano ossigeno erano infinite, ma non sapevamo dove andare a cercarlo» dice Ivan Bianchi, volontario in Val di Scalve di Protezione Civile ANA Bergamo gruppo di Vilminore-Azzone-Schilpario V.A.S., del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico e della sezione locale della Croce Rossa Italiana. «Non mi ricordo – aggiunge – quante chiamate abbiamo fatto in quelle notti: era diventata come una caccia all’oro». Alla fine, grazie a tenacia e spirito di adattamento, sono riusciti ad assecondare (nel limite delle loro capacità e anche oltre) la maggior parte delle urgenze sanitarie.

Dai loro racconti si percepisce l’intenso rapporto con il dolore della gente e la sensibile attenzione alla fragilità psicologica che si stava diffondendo. «Uno dei momenti più significativi – sottolinea Zucchelli – è stato quando, insieme all’Unità Centrale di Emergenza, abbiamo compreso come il suono continuo delle sirene delle ambulanze non facesse che alimentare il panico e l’apprensione nelle persone. Nonostante gli obblighi di legge abbiamo condiviso la decisione di muoverci senza far rumore». Tutti, qui in ValSeriana e Val di Scalve, non possiamo che leggere questa scelta come una carezza all’intera comunità.

Da questa emergenza è emerso ancora più forte come questi Corpi siano il punto di riferimento della gente e il mezzo attraverso cui le persone riescono anche ad aiutare gli altri. «Nei giorni di emergenza la cosa sicuramente più toccante e inedita – riferisce Giudy, consigliere e volontaria del Corpo Volontari Presolanaè stato veder riconosciuto il valore del soccorritore. Siamo stati sommersi dalla generosità dei cittadini: chi con
aiuti economici, chi con mascherine, chi ha donato tempo prezioso per supportarci nella gestione operativa». È l’aspetto che deve essere ricordato, come rimarca anche Bianchi dalla Val di Scalve: «La chiave per uscire da questa situazione, che deve diventare testimone per le future azioni – spiega -, è rappresentata dall’unione, dallacondivisione e dallo scambio di idee tra gli enti coinvolti per organizzare un nuovo sistema di lavoro».

E non azzardiamoci a dire a tutte queste persone che sono stati eroi. Sono stati fondamentali, certo, ma lo sono costantemente per le Valli, rappresentano bene quei valori di orgoglio e senso d’appartenenza che uniscono l’intero territorio. E lo fanno senza troppo clamore. Esserci per loro è parte di una mission che hanno abbracciato prima ancora di indossare la divisa catarifrangente. «Protezione Civile significa proteggere una comunità – afferma convinto Rossoni che già guarda al futuro – e per proteggerla è indispensabile conoscerla, incontrare le persone, rispettare e collaborare con le altre realtà impegnate nell’assistenza e nella salvaguardia dell’ambiente. Nulla di tutto questo è pensabile senza conoscere perfettamente il territorio in cui si opera. Credo nei giovani: hanno dimostrato di avere tenacia, consapevolezza delle situazioni difficili e sensibilità verso l’altro».

A parlare di legame con il territorio interviene anche Fulvio Canova, presidente del Corpo Volontari Presolana dal 2011. Anziché ricordare le giornate di emergenza, preferisce valorizzare i progetti che l’associazione porta avanti da anni sui sentieri ai piedi della Presolana. «Importante – dice – è il servizio di baite in affitto: abbiamo in gestione la Baita Malga Campo, la Baita Pozzetto e la Malga Cornetto Bassa. Sono a disposizione di compagnie che vogliono trascorrere vacanze nel relax dell’Altopiano». Prosegue sottolineando come per il C.V. Presolana promuovere un territorio equivale a metterlo in sicurezza: «In prossimità delle baite sono state posizionate colonnine di ricarica e-bike, dotate di defibrillatori: uno fra i primi progetti di “sentieri cardioprotettiin Europa, al quale abbiamo dedicato molte energie, in sinergia con il Comune di Castione della Presolana e con Promoserio. Abbiamo tantissimi sentieri con un’alta capacità attrattiva, ma stiamo lavorando per renderli percorribili da tutti gli sportivi».

Ivan Bianchi pone l’accento sull’importanza della salvaguardia ambientale: «È bello vedere – sottolinea – come negli ultimi anni sia cresciuta la consapevolezza da parte di turisti e cittadini nei confronti dell’ambiente montano. Dobbiamo fare ancora tanta strada, ma credo che grazie al lavoro di squadra a tutti sia permesso di vivere le Valli nella loro naturale essenza». Zucchelli sorride quando pensa che nonostante le enormi difficoltà degli scorsi mesi siano già arrivate richieste di assistenza per eventi. Più che altro gli amministratori gli hanno chiesto consiglio. «L’assistenza e il primo soccorso rimangono i capisaldi del nostro agire ma collaborare alle grandi manifestazioni è sempre una bella soddisfazione». Lo sguardo finisce su una foto d’archivio di Gromo Medievale: «Questa è una festa di grande risonanza, permette al pubblico di conoscere identità e storia del paese: ci teniamo a far sì che tutto sia perfetto». Quest’anno si dovrà abbandonare il classico format e c’è un po’ di rammarico, ma il pensiero orgoglioso va anche al gran lavoro svolto con molti altri volontari, che grazie alla strumentazione avanzata a disposizione hanno illuminato la Presolana, il Pizzo Camino, ma anche e soprattutto lo spettacolo notturno delle Cascate del Serio.

Il vero spettacolo sono comunque loro, i volontari, pronti a vigilare sul nostro territorio. A guidarli, in ogni frangente, sono l’amore, la passione e la volontà di proteggere l’ambiente e le comunità in cui vivono.
Con loro siamo in buone mani.

Articolo per VAL  estate 2020

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Oro vivace, classe di cristallo https://www.valseriana.eu/blog/oro-vivace-classe-di-cristallo/ Fri, 28 Aug 2020 10:50:11 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=45651

L’amore per la terra dà solo buoni frutti. Riprendendo un celebre spot televisivo, Michela Moioli ne sembra la perfetta trasposizione.
Il 17 luglio ha compiuto venticinque anni e ha già imboccato la strada giusta per diventare una delle atlete più vincenti di sempre. Lo snowboard cross da passione si è trasformato ben presto in professione, capace di far esplodere il suo talento innato.

Da Colere e dalle prime discese nello Scalve Boarder Team è giunta alla vetta del mondo nel 2018, con il titolo olimpico conquistato a Pyeongchang, in Corea. Un oro strepitoso, storico, non di certo irripetibile, che l’ha ripagata del crac al ginocchio subito quattro anni prima a Sochi (Russia) proprio mentre il terzo gradino del podio, ossia la medaglia di bronzo, sembrava ormai a un passo.

Olympics winter games PyeongChang 2018. Michela Moioli Gold medal in snowboard cross.
Phoenix Park 16/02/2018 Photo: Pentaphoto/Marco Trovati

In quel frangente, la fuoriclasse della Busa di Nese si è piegata e non spezzata, ha risalito la china passo dopo passo, aggrappandosi alla fame di riscatto così come a tutto l’amore per la sua famiglia, rinsaldando ulteriormente la simbiosi con la sua valle. Il trionfo a cinque cerchi vale una carriera. Avrebbe potuto farla schizzare in un mondo parallelo facendole perdere il contatto più genuino con le sue radici e con la sua gente, contaminando una semplicità e un’umiltà tanto contagiose quanto impossibili da scalfire. Più forti anche del rischio vertigine che non l’ha intaccata.

FIS Snowboard Cross World Cup 2019 /2020. Michela Moioli (ITA) in action Cervinia 21/12/2019. Pier Marco Tacca/ Pentaphoto


La differenza? Il dna cento per cento seriano
. I valori sani trasmessi da papà Giancarlo e mamma Fiorella sono un filo conduttore robusto e imprescindibile, al pari di due figure che insieme alla sorella Serena rappresentano il suo piccolo grande mondo. Una conferma? La sera prima dell’apoteosi olimpica in Corea, mentre l’ansia e la paura di non farcela iniziavano a fare capolino, ci ha pensato una cena con “le sue donne” e con il presidente dello Scalve Boarder Team Andrea Bettoni a cancellare ogni ansia caricandola a dovere verso il sogno che si sarebbe materializzato poche ore più tardi. «Posso essere in Italia, in Europa o nel mondo – racconta Michela -, ma ho sempre bisogno di sentire un contatto costante con i miei affetti. A volte uno sguardo, un abbraccio o una semplice parola fanno la differenza. In questo periodo sta prendendo forma la casa in cui andrò a convivere con Michele, la mia dolce metà. E mi sposto solo di qualche chilometro, ad Alzano Sopra. Non ho alcuna intenzione di lasciare il mio territorio, dove sono nata e sono cresciuta. Mi mancherebbero troppo i suoi colori, i suoi profumi e le sue bellezze».

Lei, che la bellezza la esprime all’ennesima potenza con la sinuosità e la potenza del movimento sulla tavola mixata a una competitività che si può paragonare al suo ossigeno, talvolta annulla in un modo particolare la distanza: «Mio papà è agronomo – continua Michela -, i prodotti che ha sempre coltivato, cercato e migliorato mi hanno accompagnato fin da piccola. Mi piace dilettarmi nell’agricoltura: è un modo per condividere tempo con lui e riscoprire mestieri che rischiamo di perdere. Quando ho bisogno di sfogarmi uso la vanga, mentre la potatura delle piante è un’attività leggera che mi rilassa. Quanto al cibo, adoro i formaggi e le uova, mentre la mela speciale (il “pom Milìˮ, ndr) fa sempre parte del mio bagaglio. Che mi trovi allo Stelvio in allenamento o in Coppa del Mondo. E ne ho portate un bel po’ anche all’Olimpiade, temendo oltretutto che non passassero i controlli. Tornata da Pyeongchang con la medaglia al collo, inoltre, sulla mia tavola non è mancato nemmeno un bel piatto di brofadei». Alimentazione da campionessa, spirito di sacrificio e abnegazione altrettanto. Tradotta anche in una parte fondamentale della marcia d’avvicinamento agli impegni agonistici ossia la preparazione a secco: «Non mi faccio mai mancare qualche camminata sulle nostre montagne – rileva -, con doverosa puntata nei rifugi. Adoro la bici e fino a qualche tempo fa macinavo chilometri lungo la ciclabile del Serio con la mountain bike, visto che non è asfaltata. Poi sono passata alla bici da strada, per cui le mie mete sono diventate, tra le tante, Selvino, Monte di Nese, Colle di Zambla, Val Rossa, Valcanale o il Colle Gallo».

 

Dell’annata che l’ha portata a mettere le mani sulla sua terza Coppa del Mondo – sei gare, tre primi e tre secondi posti – restano, in particolare, due spaccati che la dicono lunga sulla spiccata sensibilità dell’alzanese, colpita al cuore dalla pandemia. Dapprima la commozione a Sierra Nevada, pensando alla sofferenza della sua gente; a Veysonnaz, invece, una doppia dedica: il trofeo di cristallo a tutti i nonni d’Italia e alla sua Alzano, con una scritta sul casco. «Adesso – confessa – vorrei avere lo stemma del mio paese sulla tavola. È stata dura vivere una tragedia simile sulla propria pelle e ogni giorno contattare amici o conoscenti e capire che tutti, in un modo o nell’altro sono stati colpiti. Certe cose s’immaginano sempre molto lontane da noi. Però porterò sempre con me tutta la solidarietà che noi bergamaschi abbiamo saputo mettere orgogliosamente in campo, mostrandoci di una compattezza unica nel momento più buio».

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Un Donico sempre al Passo https://www.valseriana.eu/blog/un-donico-sempre-al-passo/ Wed, 05 Aug 2020 16:54:07 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=43778 Cambiano le generazioni e le fotografie, ieri e oggi custodi di ricordi indelebili, si arricchiscono di dettagli. In quelle dei nonni ci sono semplici coperte e pic-nic, in quelle dei genitori si intravedono gli impianti di risalita sullo sfondo, in quelle dei giovani compaiono il bob estivo e il tiro con l’arco. In quelle dei nostri ragazzi vediamo le e-bike e i tubbies.

 

E i bimbi di domani?
Staremo a vedere, ma sicuramente nelle loro istantanee non mancheranno le sorprese. La famiglia Pasinetti, da oltre sessant’anni, gestisce il Donico nella sua versione invernale e in quella estiva, senza mai fermarsi, continuando a offrire nuove attività per grandi e piccini.
Anche le fotografie della famiglia stessa raccontano una storia che sta al Passo (la maiuscola geografica si impone nel gioco di parole) con i tempi. Sono arrivate a quattro le generazioni che hanno accolto turisti e residenti per un pomeriggio di divertimento, per un buon piatto di tagliatelle ai funghi o per un salto sui tappeti elastici.

DIVERTIMENTO ESTIVO PER TUTTI I GUSTI

Anche il 2020 non sarà da meno, anzi. Tutto si svolgerà secondo la normativa vigente e le tante attività aspettano tutte le famiglie per divertirsi in sicurezza e allegria. Sfogliando l’album delle proposte, scopriamo che ce n’è davvero per tutti i gusti. I bambini potranno divertirsi in sicurezza sui tubbies, le ciambelle giganti che permettono di scivolare sui pendii con i capelli al vento, per rinfrescarsi con una brezza leggera nelle giornate di caldo estivo. Chi invece preferisce vedere il mondo “saltando su e giù” potrà provare i tappeti elastici, da sempre una delle attività più divertenti e richieste.
E i ragazzi? Via gli smartphone e avanti i sorrisi. Chi l’ha detto che per il bob serve la neve? Il bob estivo è un’esperienza unica che non lascia mai delusi. Quest’anno i bob saranno sanificati dopo ogni uso e sarà dunque possibile godersi tante emozioni insieme agli amici in tutta sicurezza.

Giriamo un’altra pagina del nostro album fotografico ed ecco un bersaglio. Ebbene sì, non manca proprio nulla: da metà giugno a fine agosto possiamo cimentarci come moderni Robin Hood anche nel tiro con l’arco che aspetta i grandi, ma anche tutti i bambini dai quattro anni in su. Si garantisce il mantenimento della distanza di un metro tra le persone, ma non si garantisce di contenere l’entusiasmo: quello sì che al Donico è contagioso.

Così contagioso che viene voglia di salire in sella ed esplorare anche i dintorni: perché non noleggiare un’e-bike e farsi accompagnare da guide esperte alla scoperta del territorio? È possibile anche partecipare a tour
organizzati, con un indimenticabile pranzo in quota.

Affidati all’esperienza delle guide mtb del territorio

Sfogliando l’album ci assale un certo languorino: quest’anno sarà possibile scegliere se godersi il pranzo nell’area esterna con grigliate, taglieri, polenta e panini oppure ritirare il proprio kit pic-nic e gustarsi le prelibatezze della cucina direttamente su una morbida coperta distesa nei prati antistanti il bar. Lo stesso servizio sarà offerto anche alla Baita Termen e al Bar Vareno nel contesto incantevole del Monte Pora.

Kit pic-nic alla Baita Termen

Il nostro album prosegue con tante pagine bianche che lasciamo ai nostri lettori, da riempire con nuovi ricordi e con le istantanee di giornate felici in ValSeriana e in Val di Scalve, vivendo esperienze ed emozioni autentiche, nel rispetto della sicurezza.


 

PER INFO
www.presolanamontepora.it
sara.tomasoni@presolanamontepora.it | 0346.31009
pagina fb Presolana Donico Winter & Summer
pagina fb Bar Donico

 

Articolo scritto da Martina Biffi per VAL estate 2020

 

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Il Coro Idica torna a cantare https://www.valseriana.eu/blog/il-coro-idica-torna-a-cantare/ Thu, 02 Jul 2020 10:28:04 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=43395 La settimana scorsa hanno ricominciato le prove.

Prove un po’ strane, un po’ diverse… prove fatte all’aperto, fuori e non dentro la sede, prove a distanza, prove con solo la metà del coro.

Non si rinuncia però alla tradizione del caffè prima di iniziare a cantare, ma in sede è  indispensabile mantenere le distanze.

All’arrivo dei coristi c’è un componente che misura la febbre e invita a igienizzarsi le mani, successivamente il Maestro comunica in quale sedia ci si deve sedere e via… Che le prove abbiano inizio.

Alla fine della prima serata di prove il Maestro ha dichiarato “sono molto soddisfatto di come è andata la serata! I Coristi hanno voglia di cantare e di stare insieme e questo ha fatto sì che dopo i primi momenti di ruggine, le voci si sono sciolte all’unisono anche a distanza! Bene, avanti tutta!

Su ogni sedia i Coristi hanno trovato un sacchettino di caramelle al miele con il messaggio di benvenuto e una copia del VAL del mese di Marzo che riporta un bellissimo articolo proprio sul Coro, che nel mese di Marzo, avrebbe dovuto festeggiare il suo 63^ Anniversario.

Erano tutti contenti di essere “tornati a cantare” e tanti hanno chiesto di poter partecipare anche alle prove di venerdì.

Non sono mancati i momenti di commozione ricordando chi di noi non c’è più, ma proprio per loro, più forti che mai, c’è la volontà di andare avanti!
Anche durante il lockdown il Coro ha comunque lavorato per creare e per far sentire la proprio presenza.

Grazie alla collaborazione di Luca Pendezza adesso potete trovare la pagina del Coro Idica su Wikipedia e grazie a Mattia Legrenzi, il sito è stato completamente rinnovato: www.corodica.it

All’ingresso del paese, in pineta, dove c’è la bacheca con la foto del coro, adesso c’è anche un cartello di BENVENUTI A CLUSONE , un augurio che i coristi estende a tutti i visitatori. Ora fuori dalla sede è apparsa la targa in modo che anche quando il Parco Nastro azzurro è chiuso, la gente possa sapere che quello è un luogo dove la musica, così come la cultura, è protagonista.

Sempre avanti tutta quindi! Il Coro idica non si può fermare perché fa parte della storia di Clusone, e per questo motivo è sempre alla ricerca di voci nuove da inserire nel gruppo!

L’invito è quello di andare a trovarli durante le prove il martedì e il venerdì dalle 20,30 alle 22. Vi offriranno un caffè e potrete vedere come si prepara un Coro.
L’invito è aperto a tutti, aspiranti cantori, mogli, figli e amici!

CORO IDICA: 63 ANNI DI STORIA!

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SMV Bike e l’innovativa ebike RS 850 city & cityplus https://www.valseriana.eu/blog/smv-bike-e-linnovativa-ebike-rs-850-city-cityplus/ Fri, 12 Jun 2020 07:02:58 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=43085 I fratelli Mauro e Stefano, titolari dell’azienda, stanno lavorando per migliorare la loro presenza sul mercato:Ci stiamo impegnando e concentrando sia a livello commerciale sia sul piano promozionale per far ripartire il comparto delle due ruote, investendo nel mondo ebike.
Oltre alla nuova serie SILVER GSX nelle varie versioni, un innovativo prodotto è già sul mercato: RS 850 city & cityplus – una bicicletta innovativa e adatta a tutti gli utilizzi possibili, soprattutto per le aree cittadine. Grazie alla doppia sospensione, questa ebike si caratterizza per essere l’unica trakking
bi-ammortizzata sul mercato”.

Scoprite in questo video il mondo di SVM Bike

 

 

SVM Bike è espositore del Presolana Ebike Event – iniziativa dedicata al mondo della bicicletta elettrica e del turismo lento in ValSeriana

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Una vita da guardiano https://www.valseriana.eu/blog/una-vita-da-guardiano/ Thu, 04 Jun 2020 20:15:26 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=42979 Guardando fuori dalla finestra si dovrebbe vedere tutto bianco. Invece
no, molte rocce affiorano ancora dalla neve perché le misere nevicate di questo inverno non sono riuscite ad ammantarle tutte.
Quassù, al cospetto della diga del Barbellino, in passato era però molto diverso. «Iniziava a nevicare a fine ottobre – ricordano nei loro racconti i guardiani più anziani – e a maggio potevi svegliarti alla mattina con enormi fiocchi che ancora cadevano dal cielo».

La Diga del Barbellino, realizzata tra il 1927 ed il 1931

LA CASA IN QUOTA DEI GUARDIANI

Nella loro casetta in quota non manca nulla.
La sala da pranzo ha due finestre: una si affaccia sull’enorme muro della diga, mentre l’altra sulla mole ingombrante del Pizzo Coca, il “Re delle Orobie” con i suoi 3050 metri di altezza. Nella parte sinistra della stanza si trova invece il televisore. La sua utilità nel periodo estivo potrebbe risultare
superflua, non durante quello invernale quando il buio vince la sfida con le ultime luci del giorno magari accompagnato dal sibilo del vento che, a queste quote, può spazzare le creste per giorni interi.
Sopra il divano è appeso un quadretto che racconta la storia dei
guardiani. Vi sono infatti elencati tutti i nomi di coloro che nel corso
degli anni hanno prestato servizio come custodi della diga più grande
della bergamasca. Le imposte sulle finestre sono rigorosamente in ferro, un pezzo unico privo di pertugi per impedire alla neve trascinata dal vento di trovare un facile varco.
Sul fondo del corridoio si trova invece la rampa di scale che consente
di accedere alla stazione di arrivo della funivia utilizzata, anche d’inverno, per salire in quota. Gettando lo sguardo verso valle si può vedere uno dei tre pali su cui poggiano le funi. Poco oltre si apre un baratro, un burrone di oltre trecento metri dal quale precipitano le acque che danno origine alle cascate del Serio. In un’altra stanza si trova invece tutta la strumentazione, la parte tecnologica che consente di tenere costantemente monitorato l’impianto.

Le cascate del Serio, 315 mt di emozione

È da questa postazione che, cinque volte all’anno (quest’anno il numero di aperture non è ancora confermato), i guardiani manovrano lo scarico di mezzofondo per liberare i seimila litri di acqua al secondo che danno vita a
questo grandioso spettacolo.

Ogni mattina, senza soluzione di continuità, viene eseguita la visita ispettiva della diga. Come le marmotte, che in estate si sentono fischiare in lontananza, il guardiano si insinua in un complesso sistema di cunicoli e gallerie, uscendo parecchi minuti dopo sul versante opposto della montagna.

Con l’arrivo dell’estate si rivedranno in quota gli escursionisti, nonché i tanti animali che trascorrono la stagione avversa in luoghi più comodi. I “funamboli con gli zoccoli”, come qualcuno li ha battezzati, torneranno a sfidare la legge di gravità compiendo le loro acrobazie sul muro della diga.

ESPERIENZE SOSPESE

Sono stati 49 finora i guardiani che hanno prestato servizio al cospetto della diga del Barbellino. Bonacorsi Angelo di Valbondione è il più anziano di quelli rimasti e di aneddoti potrebbe raccontarne per ore. «Ho iniziato nel maggio del 1970 – esordisce – assieme all’amico Balicco Vincenzo. Andammo ad affiancare, tra gli altri, Morandi Romolo e Bonacorsi Guido che, se non ricordo male, furono i primi nel 1969 ad aprire le cascate. A Pianlivere si prendeva il carrello per salire in direzione del Pinacolo e poiché i telefoni non esistevano si comunicava con il macchinista a monte tramite segnali convenzionali. Sul lato destro delle rotaie erano infatti presenti dei pali in ferro che reggevano degli isolatori in porcellana su cui veniva ancorato un filo di rame. Ebbene, con una verga di legno (dotata di una terminazione in rame) si “batteva” su questo per far giungere il segnale in sala macchine: un colpo per fermare la corsa, due per avanzare, tre per tornare a ritroso. Durante la salita poteva anche capitare di scorgere qualche fungo nel bosco e allora si chiedeva lo stop del carrello per alcuni minuti (ma, in rispetto all’indole misteriosa dei fungaioli, questo Angelo lo ricorda sottovoce, ndr). In quota avevamo delle galline che mangiavano quanto avanzato dei pasti al rifugio Curò. Purtroppo non sempre facevano le
uova nelle loro cassette ma si nascondevano tra i pini mughi e, in quei casi, bisognava spiarle con il cannocchiale per scoprirne il nascondiglio»

La Funivia che collega Valbondione alla Diga


L’esperienza indelebilmente stampata nella sua memoria è legata alle ore trascorse in funivia sopra le cascate del Serio, con oltre trecento metri di vuoto sotto il pavimento. «Era un pomeriggio di dicembre – ricorda – ma fortunatamente non aveva ancora nevicato. Alle 17 salimmo sulla funivia per tornare in paese: eravamo io, Rodari Attilio e Rodigari Vitale.
Poco dopo il cavalletto, e appena affacciati sul baratro delle cascate, questa si bloccò bruscamente ondeggiando per diversi secondi. Lo spavento fu enorme. Dopo lo smarrimento iniziale contattammo il macchinista con il telefono a manovella presente a bordo, il quale ci disse che aveva già provato a rimettere in moto ma senza esito». La macchina dei soccorsi si attivò da subito, vennero avvisati i capi e i tecnici che conoscevano l’impianto a fune per comprendere l’entità del guasto. «Il tempo passava, era buio pesto e la cabina spesso ondeggiava a causa del vento. Iniziavamo ad avere freddo e a bordo c’era una sola coperta che continuavamo a scambiarci a vicenda. Dopo un po’ ci dissero per telefono che quattro colleghi erano già partiti a piedi da Valbondione in direzione delle cascate del Serio con viveri e coperte. A quel punto, alla luce di un accendino, togliemmo dal cassone tutte le corde presenti iniziando a unirle tra loro nella speranza che giungessero fino a terra. Verso le 23 vedemmo le pile spuntare dal bosco e portarsi sotto di noi. Aprimmo quindi la botola sul pavimento per calare un’estremità, che fortunatamente li raggiunse. Avevano una ricetrasmittente e con la nostra di bordo dicemmo loro di appendere subito le coperte. Il recupero della corda non finiva più, furono attimi interminabili culminati dalla gioia di vedere spuntare dal buio l’enorme saccone.
Una volta svuotato lo calammo nuovamente per recuperare i viveri. Dopo mangiato ci accovacciammo in un angolo con la cabina che non smetteva di ondeggiare. In piena notte, verso le 4, squillò il telefono. “Siamo pronti a tirare” ci disse il macchinista.

Potete solo immaginare quale fu la nostra gioia nel sentire ripartire la funivia e vedere sempre più vicine le luci di Valbondione».

 

Testo e foto di Mirco Bonacorsi per VALSeriana & Scalve Magazine – primavera

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Con le Orobie nel cuore https://www.valseriana.eu/blog/con-le-orobie-nel-cuore/ Thu, 28 May 2020 10:20:13 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=42579 «Serenità». Lo dice col sorriso e gli occhi che, giusto per un istante, paiono staccarsi dall’obiettivo per vagare tra le mille polaroid scattate negli anni dal suo cervello e dal suo cuore. Martina Bellini non ha dubbi quando le si chiede cos’è, per lei, la ValSeriana. Clusone e lo Orobie sono molto più di casa. Sono il suo rifugio, il suo punto di equilibrio. E sa Dio quanto sia fondamentale averne uno quando hai 22 anni e da almeno sei vieni ritenuta l’astro nascente dello sci di fondo italiano. La pressione e le paure di un’atleta che si aggiungono a quelle di un’adolescente. In questi casi, è fondamentale avere radici profonde e salde alle quale aggrapparsi per evitare di farsi abbattere dai venti e dalle intemperie.

«Tra una competizione e l’altra, viaggio molto. Quando però inizio a vedere stagliarsi all’orizzonte il profilo di Città Alta e le nostre montagne, ogni tensione se ne va. Casa, finalmente. Vedere le mie strade, le mie montagne, mi tranquillizza, mi fa stare bene. Avere vicino le persone che mi vogliono bene, che mi conoscono, è una cosa bella. So che comunque andranno le cose, qua sarò sempre Martina». Cioè la bambina che, per imitare i due cugini più grandi («Sono i fratelli che non ho, praticamente»), a cinque anni ha voluto indossare un paio di sci e non li ha più mollati. Specialità, fondo. Da sempre. «Non so come mai. Non c’è un motivo particolare. È stato il destino forse. Fatto sta che non ho più cambiato».
Anche perché Martina è andata subito fortissimo. Vinceva, eccome se vinceva. Impossibile non notarla. A 18 anni, col diploma in Ragioneria ancora da conquistare, è entrata nell’Esercito, lasciando per la prima volta lo Sci Club 13 Clusone. Il primo salto tra i grandi, pur restando nella categoria junior. Poi, a 19 anni, il secondo salto, quello tra i senior. «E lì ho traballato un po’. La stagione scorsa è stata la più dura. Cambia tutto, ti rendi conto che ogni cosa deve ruotare solo attorno a quello. Cambia il centro di gravità, dalle ore di allenamento alla cura che devi prestare a ogni minimo dettaglio. Ero spaesata, anche perché da Junior andavo forte ed ero abituata bene, tra i grandi invece il livello degli avversari è più alto e per quanto tu possa essere preparata l’impatto è un’altra cosa». Al suo fianco, però, c’era un altro bergamasco, seriano doc: Renato Pasini, tecnico della nazionale U23 di sci di fondo. E di Gromo. «C’è sempre stato, ha creduto in me. Mi ha dato la forza di andare avanti. Vivere in modo così difficile la scorsa stagione mi ha permesso di capire tante cose».

Dopo ogni temporale spunta il Sole. E Martina lo ha capito sulla propria pelle tornando ad alti livelli dopo tanto lavoro e tante difficoltà. Lo ha capito anche a inizio febbraio, quando alla seconda edizione del Bergamo Ski Tour ha ottenuto un bronzo nello sprint e un argento della distance. «È stato bellissimo fare risultato a casa, davanti alle persone che mi conoscono da sempre. Abbiamo gareggiato a Gromo. Prima delle gare ero tesa, ma la spinta del tifo mi ha caricato un sacco. In più l’evento era stato organizzato veramente benissimo».
Ovviamente, mentre ne parla il sorriso è stampato sul suo volto. Sta parlando di casa, della sua Valle, della «serenità» quindi. Qualcosa che, a suo parere, tutti dovrebbero scoprire. «Lo dico seriamente: qui abbiamo tutto. In estate, durante gli allenamenti in bici o di corsa, giro la ValSeriana in lungo e in largo e abbiamo posti stupendi, fantastici. Mancano i servizi, però. Per portare qui la gente e soprattutto tenerla, dobbiamo migliorare ancora tanto. E manca anche un po’ di coraggio, di voglia di osare. L’estate scorsa, quando l’Atalanta è venuta in ritiro a Clusone, è stato fantastico. Un bellissimo delirio. Gente dappertutto, feste. Dovrebbe essere così ogni estate».

Magari un giorno, in un futuro lontano, Martina penserà a mostrare al mondo le bellezze della sua terra. Perché nonostante sia giovane e talentuosa, lo sguardo è già rivolto all’orizzonte: studia Economia all’Università («Mi piacciono i numeri, un sacco») e sa che la carriera di un atleta è soggetta a tante, troppe incognite. La sua razionalità, però, barcolla quando le si ricordano le Olimpiadi Invernali di Milano-Cortina 2026. «Mamma mia, che sogno! Le Olimpiadi in generale, ma quelle in particolare. Nel 2026, poi, avrei l’età perfetta… sarebbe stupendo esserci, un sogno che si realizza. A casa per di più». Già, a casa. Perché gira che ti rigira, alla fine sempre lì si torna. Il luogo perfetto, la “serenità”.

Articolo di Andrea Rossetti per VALSeriana & Scalve Magazine 

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Corolle regali https://www.valseriana.eu/blog/corolle-regali/ Mon, 13 Apr 2020 09:37:53 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=42717 Hanno quasi tutte dei nomi femminili, perché sono le regine delle nostre montagne. E in quanto tali, difficili da avvicinare. Quelle lunghe e complicate parole latine sembrano titoli nobiliari, d’una dinastia il cui tratto distintivo è una ritrosa e timida bellezza.
Saxifraga presolanensis, Primula albenensis, Linaria tonzigii. Mettono soggezione fin dal nome. E ognuna ha un suo palazzo preferito, il luogo dove regnare dall’alto sulla valle.

I FIORI ESCLUSIVI DELLA VALLE

La Saxifraga ad esempio predilige i coni d’ombra che guardano a nord, il suo capriccio è quello. Ma lei può permetterselo, perché è “la regina dei fiori di roccia” come titolano Renato Ferlinghetti ed Enula Bassanelli.
Una vita solitaria, eremitica, per “uno dei gioielli di maggior splendore della flora bergamasca”.

La Linaria (detta bergamasca) ha gusti diversi, ama muoversi lentamente, impercettibilmente per noi uomini, insieme ai ghiaioni su cui dimora. Pattina insieme ai sassi sui monti, piano piano. Essendo specie esclusiva delle Orobie, è stata scelta come simbolo del gruppo Flora Alpina Bergamasca (Fab).
La Primula porta nel suo nome il regno su cui troneggia: l’Alben, con le sue rocce calcaree. Un’altra sovrana, la Viola comollia, è detta anche “del Coca”, perché sceglie invece gli ambienti silicei dell’alta valle, come appunto il Coca, la zona del Curò. Si trova generalmente tra i 2200 e i 3000 metri e recentemente è stata valutata “quasi a rischio” per via del riscaldamento globale.

La bellezza aristocratica di questi che sono alcuni dei fiori endemiciesclusividella ValSeriana (e Brembana) non è solo rara, non è solo nascosta. È anche perigliosa.

IL CERCATORE CON LA MONTAGNA NEL CUORE

Pierino Bigoni del gruppo micologico Bresadola di Villa dʼOgna racconta di quando veniva qui il botanico scozzese Sidney J. Clarke, di Edimburgo. Cercatore appassionato di primule, fu lui a trovare un ibrido dellʼalbenenesis ancora in fase di studio – e pure una sua rarissima varietà albina -. Una volta, arrampicandosi sulle rocce, avido di scoperte, cadde e prese un brutto
colpo, fratturandosi alcune costole. Lui e Pierino, nelle avventure sui monti, non parlavano in inglese, ma latino. Il latino dei fiori. Negli ultimi anni però il botanico si è ammalato e ha dovuto rinunciare alle sue esplorazioni seriane.

Piero Bigoni e il botanico scozzese Sidney J. Clarke mentre studiano la Primula Albenensis

Lo stesso Pierino, nel suo peregrinare tra boschi e monti alla ricerca di funghi, si occupa pure di fiori e pollini. Li fotografa, li raccoglie, analizza e cataloga nella palinoteca. «Lo scorso giugno, attraversavo un canalone per incontrate un meraviglioso Cypripedium. Sentii dei rumori e riuscii a sottrarmi per un soffio a una violenta scarica di sassi, che piovvero dall’alto».
Il Cypripedium calceolus è un’orchidea sublime, che Pierino s’è divertito a cercare per alcuni anni, in Val di Scalve. «Ha un periodo breve di fioritura, quindici-venti giorni, in concomitanza del pino mugo, che ti penetra nelle
narici. Su e giù per i canaloni, cerca e cerca, in ambienti ostili. Ma che urlo di gioia, quando l’ho trovato».

Cypripedium calceolus

Ci sono anche i fiori che amano impantanarsi nelle torbiere. È il caso della Drosera rotundifolia della Val Sanguigno. In quegli ambienti, solo poche specie di animali e piante riescono ad adattarsi. Come quelle carnivore, che sopperiscono alla carenza di sali di azoto nelle acque con l’azoto organico dei piccoli artropodi che catturano con i loro peli appiccicosi. Qui la bellezza aristocratica dei fiori di pietra lascia spazio a un fascino selvaggio, un poʼ crudele. La Drosera è agguerrita.

Drosera Rotundifolia in Valsanguigno

Si riprende candore con l’Eriophorus scheuchzerii (foto in copertina), sempre in Val Sanguigno. «Sembrano campi di cotone» dice Pierino. E lʼincredibile suggestione delle sue foto lo testimonia. Questa bellezza come di neve che cade dolcemente, sospesa nel tempo, vive e prospera sempre in quelle melmose torbiere dove la Drosera va a caccia.

Una figura imprescindibile quando si parla di fiori bergamaschi, è il professor Claudio Brissoni. Fu lui a individuare il sentiero dei fiori, un itinerario ideale tra specie pregiate come, oltre alle già citate, il Galium montisarerae, l’Allium insubricum, la Silene elisabethae, la Campanula raineri. Si tratta di un percorso ad anello: dal rifugio Capanna 2000 si attraversa in quota la Val dʼArera fino al passo Gabbia. Poi la Corna Piana e giù al lago Branchino. Il sentiero è il numero 221. Ritorno lungo il 222, più basso di 200 metri.

Esiste infine una bellezza un poʼ più accessibile. Che tutti possiamo ammirare senza inerpicarci chissà dove. Pierino consiglia la Valzurio, lungo la passeggiata per le baite del Möschel. Qui potreste imbattervi nel Crocus albiflorus in primavera e altri durante l’anno.

 

Percorsi fattibili anche in Val Sanguigno, dalla centrale di Aviasco in poi. Ancora, tra il rifugio Parafulmine, Farno e il Pizzo Formico: ottime fioriture di Primula orecchia d’orso e Saxifraga vandelii. Al Monte Poieto e Cornagera, fioriture di Rhododendronnano (chamaecistus), hirsutum, e ancora Primula auricola.

 

Articolo di Fabio Busi per VALSeriana e Scalve Magazine
Foto di Pierino Bigoni

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Macine e passione, l’energia di Cerete https://www.valseriana.eu/blog/macine-e-passione-lenergia-di-cerete/ Tue, 31 Mar 2020 20:14:16 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=40495 Un museo per sapere, un museo per ricordare, ma soprattutto,
un museo da alimentare.

I soci dell’associazione “La Sorgente” hanno inaugurato nel luglio 2018 il MaCer, Museo dei mulini, della macinazione e dei cereali.
Una piccola esposizione, ricavata all’interno di quella che fu a Cerete Basso la chiesa di San Rocco, segno di una grande passione e di spunti storici e  didattici infiniti come granelli di farina.
In Val Borlezza, di cui  Cerete è centro nevralgico, esiste un ecomuseo che nel MaCer ha trovato un ulteriore polo, utile a raccontare una storia secolare fatta di lavoro, energia, competenze e socialità.
L’abbondanza d’acqua (oltre al Borlezza qui scorre anche il Cula) è  all’origine di una vocazione radicata, che nei secoli ha sviluppato molteplici attività di produzione e trasformazione.
L’energia idrica alimentava mulini per i cereali, segherie, i “pestoni” per polverizzare la corteccia (ma anche per pilare orzo oppure follare la lana), fucine, filatoio e addirittura una cartiera.
Si era sviluppata, per fare un parallelo con l’urbanistica moderna, una vera e propria “zona industriale”.
Non a caso anche i comuni limitrofi di Fino del Monte, Songavazzo e Onore erano proprietari di mulini in territorio di Cerete.

UN ASSOCIAZIONE PER LA TRADIZIONE

Si tratta di una storia di uomini e lavoro che ha permeato la vita (se non la sopravvivenza) della comunità e che oggi motiva l’impegno di decine di volontari, protagonisti ogni anno, l’ultimo fine settimana di luglio, della Festa della Sorgente che unisce alla cucina a base di sapori seriani, percorsi didattici ed esperienziali per le famiglie.

La trebbiatura durante la Festa della Sorgente

I volontari si sono uniti in associazione nel 2005 e sono guidati dal presidente Ezio Seghezzi. «Ad unirci è stato l’amore per il nostro paese – spiega – ma anche l’urgenza di salvare l’antica chiesa di San Rocco, in condizioni precarie. Abbiamo lavorato molto, grazie a un comodato d’uso stipulato con la parrocchia, per mettere in sicurezza la struttura, cui ora abbiamo dato nuova vita».

IL MACER

In esposizione ci sono ricostruzioni di “macine” dell’età della pietra, ma anche macchinari d’epoca tuttora funzionanti. A dominare la scena di una sala destinata anche a incontri e convegni è un grande tabellone con il censimento delle “Ruote de’ Molini esistenti nelle Comuni della Pretura di Clusone”, in cui spiccano nove ruote”.

«Mulini, pestoni e altri luoghi di produzione e lavoro – aggiunge Seghezzi – erano più numerosi. A legare e rendere unica questa tradizione è il fatto che l’attività di molitura è proseguita nei secoli senza soluzione di continuità, alimentata ad acqua e da competenze tramandate di padre in figlio».

L’associazione “La Sorgente” si è impegnata a 360 gradi, recuperando in paese l’antica Calchera di Fonteno (fornace per la produzione di calcina) e puntando a ricostruire una filiera completa. Si è partiti dalla  coltivazione di frumento, segale e grano saraceno. «In ValSeriana ci sono realtà importanti – aggiunge Seghezzi – come quelle dello Spinato di Gandino e del Rostrato Rosso di Rovetta, così come l’Associazione Grani del Serio con cui abbiamo avviato collaborazioni».

IL PESTONE

Chi pensa al MaCer come a un museo polveroso (beh un po’ di farina ovviamente c’è), può ricredersi solo percorrendo poche decine di metri per ammirare l’antico “Pestù”, grazie all’impegno dell’Amministrazione Comunale.

Il Pestone

È un mulino a pestelli alimentato ad acqua, composto da una ruota idraulica, un albero a camme, quattro pestelli e da un contenitore (pila). La ruota, girando sotto la spinta dell’acqua, fa ruotare l’albero e le sue quattro camme, che a loro volta alzano alternativamente i pestelli. I pestelli una volta liberi dalla spinta verso l’alto ricevuta dalle camme cadono per gravità, pestando la corteccia posta nella pila.
Un’operazione preziosa, utile per estrarre il tannino, utilizzato per la concia delle pelli e per la produzione della carta (come certificato anche a Cerete).
Nel piccolo parco che circonda “ol Pestù” ci sono le macine originali del Mulino di Onore, ma anche un forno in terra cruda costruito in loco nel 2013, utile alla cottura del pane.

IL MULINO GIUDICI

In paese, oggi, è tuttora attivo il Mulino Giudici, gestito dall’ottobre 2018 da Flavio Vecchi.
«Ho cominciato senza troppo curarmi della convenienza economica  – spiega Flavio – spinto dalla passione per la natura, i cereali e dalla volontà di non perdere una tradizione secolare. La coltivazione in Valle nei secoli è profondamente mutata, passando da un’economia domestica e di sostentamento a una votata all’allevamento, con produzioni di cereali utili alla zootecnia.
Negli ultimi anni si avverte una crescente attenzione ai semi antichi, ma anche e soprattutto alla sostenibilità delle produzioni.
Al Mulino di Cerete oggi, rigorosamente a pietra e alimentato ad acqua, produciamo farine certificate biologiche.
Per questo ci rivolgiamo per farro, frumento e avena a coltivatori tracciati dell’area bergamasca».

Flavio Vecchi al lavoro nel Mulino Giudici

Vecchi ha avviato fra Rovetta e Songavazzo coltivazioni di frumento e farro e utilizza quale primaria rete “commerciale” i GAS, Gruppi di Acquisto Solidale.

«Certamente non è semplice – spiega – in quattro ore il mulino macina un quintale di frumento, mentre per analoga quantità di mais basta poco più di un’ora. La scommessa è quella di dare corpo a una sorta di “rivoluzione culturale” che coinvolga le famiglie e, innanzitutto, i bambini, cui  proponiamo attività didattiche molto apprezzate».

Il tempo passa e l’acqua corre sotto i ponti: quella dei mulini di Cerete resta e continua a macinare.

 

Per informazioni utili è possibile consultare il sito www.lasorgenteonlus.net. Si organizzano inoltre attività didattiche e visite guidate al “percorso del pane” in collaborazione con la cooperativa Artelier (342.3897672).

 

Articolo di Giambattista Gherardi Per VALSeriana & Scalve Magazine

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Pedali ruggenti https://www.valseriana.eu/blog/pedali-ruggenti-mtb-parre-valseriana-bg/ Fri, 20 Mar 2020 20:47:44 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=42575 La passione per la mountain bike è la vera protagonista della storia che vogliamo raccontarvi. Quella passione che, nel gennaio 1990, ha unito un gruppo di amici, capitanati da Cesare Verzeroli, nel fondare la società sportiva dilettantistica Mountain Bike Parre. Nel dicembre dello stesso anno la guida è passata all’attuale presidente Severo Ruggeri, che ne ha accompagnato la crescita: anche se la maggioranza dei tesserati proviene dai paesi limitrofi, il successo della formula di Ruggeri e soci richiama atleti da ben oltre i confini dell’Alta ValSeriana.

Passeggiando per la meravigliosa Pineta di Clusone potreste incontrarli indaffarati con utensili di potatura, rastrelli e sacchetti. A loro si deve infatti la cura e il mantenimento (boschivo e territoriale) di una vasta area della Pineta, con la bonifica dalle sterpaglie per rendere utilizzabili per le bici e per i pic-nic ampie zone dal contesto suggestivo. La Pineta, oltre a ospitare un tratto di pista ciclabile, un percorso vita, un circuito di skiroll e diversi chilometri di tracciati pedonali, è infatti uno dei luoghi prediletti per l’allenamento degli atleti, che si svolge principalmente in Alta Valle e sull’altopiano, nella zona di San Lucio e in Val di Tede (usando la pista ciclabile per i vari spostamenti). Mantenerla e renderla fruibile a sportivi ed escursionisti è un servizio prezioso per il nostro territorio.

I soci di Mountain Bike Parre si dedicano comunque anche, e soprattutto, all’organizzazione di gare e a una vera e propria “scuola” di mountain bike. Fra le gare va ricordato il “Gran Premio Pais de Par” per le categorie master, organizzato dal 1991 e giunto alla ventitreesima edizione, colonna portante del circuito provinciale Orobie Cup.

La scuola “sui pedali”, altro fiore all’occhiello dei Mountain Bike Parre, è nata nel 2011 per avvicinare i giovani a questo sport. È portata avanti da un gruppo di maestri abilitati dalla Federazione Ciclistica Italiana. I numeri della scuola sono in costante crescita: proprio pensando a questi ragazzi la società organizza due gare per le categorie giovanissimi e esordienti/allievi/junior. I ragazzi partecipano  inoltre a diversi circuiti, anche nazionali.
I valori della scuola sono chiari: promozione dello sport attraverso l’apprendimento della mountain bike sia come mezzo che come attività appassionante, e crescita umana dei ragazzi nello sport attraverso dedizione e rispetto delle regole fin da piccoli. Gli obiettivi agonistici arrivano in seguito, diversi per ogni ragazzo. Ruggeri è molto chiaro su questo punto: l’attenzione è incentrata sulla crescita globale dei ragazzi, perché sono il futuro. «In un mondo automatizzato – sottolinea – fatto di macchine, è fondamentale andare contro corrente per insegnare e mantenere la potenza uomo».

Il 2019 è stato ricco di soddisfazioni per la grande famiglia di Mountain Bike Parre, sia per i risultati sportivi che per la coesione che lega gli atleti. E poi il sogno di organizzare una gara nazionale, che da “idea pazza” si è finalmente tramutato in realtà, grazie alla tenacia e alla passione.
I progetti per il futuro non mancano, primo fra tutti la possibilità di acquisire ufficialmente la gestione della Pineta di Clusone, per avere finalmente una “casa” dove spostare la propria sede e su cui investire ancor di più in termini ambientali e di infrastrutture di servizio. Poi l’aspetto agonistico, sperando nel successo della Gara Nazionale 2020 per accrescerne il livello negli anni a seguire.

Infine, ma non meno importante, continuare ad arricchire il vivaio dei ragazzi perché, sottolinea Diego Brasi, tecnico allenatore di 3° livello, «la bicicletta è vita, polmoni, fatica e divertimento: tutti dovrebbero avere il privilegio di provare queste emozioni».
La ValSeriana e la Pineta di Clusone sono il posto giusto.

Articolo di Clara Bassani per VALSeriana & Scalve Magazine – primavera 2020

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Un coro nella valle https://www.valseriana.eu/blog/un-coro-nella-valle/ Sat, 14 Mar 2020 15:22:45 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=42560 Il Coro Idica (acronimo di Coro Italiano di Canti Alpini) nacque quasi per caso in una notte di Natale del 1956, quando un gruppo di amici si ritrovò per le vie di Clusone a cantare le “pastorelle” natalizie care alla tradizione. Il maestro Kurt Dubiensky, un ebreo viennese giunto a Clusone per scampare alle persecuzioni e poi rimasto per amore, li sentì e propose loro di creare un coro: fu così che il 19 marzo 1957 fu fondato ufficialmente il Coro Idica di Clusone.

VIAGGI TRA FESTIVAL DEL MONDO

Sfogliando l’album dei ricordi, sono tante le pagine da incorniciare, come le quattro partecipazioni al Festival Mondiale dei Cori a Tel Aviv (Israele, unico coro italiano presente). Il primo viaggio si tenne nel 1964, quando il coro raccolse gli elogi della stampa locale per il grande coinvolgimento suscitato nel pubblico; nel 1967 festeggiò il decennale con la vittoria della Palma D’Oro; nel 1973 si esibì in un kibbutz e in un campo militare; nel 1979 ebbe l’onore di cantare la Santa Messa nella Grotta della Natività di Betlemme.
Girando pagina, ci si ritrova a Città del Messico, nel 1968, con la storica esibizione in coincidenza con le Olimpiadi. Dopo il tradizionale repertorio di canti di montagna, il coro intonò il famoso brano messicano “Guadalayara” guadagnandosi una standing ovation. Il successo a seguito di quella magica serata li portò poi negli anni a esibirsi in giro per il mondo: nel 1990 al Festival Internazionale dei Cori a Missoula in Montana (USA), nel 1994 in Brasile, nel 1997 in Thailandia ospiti dell’Ambasciata Italiana. E ancora nel 2002 al museo Hermitage di San Pietroburgo, nel 2010 in Argentina, nel 2018 una tournée in Libano e nel 2019 in Lettonia e Lituania.
Tante ancora le pagine che ricordano i successi ottenuti dal Coro Idica nelle sue tournée in Italia e in giro per il mondo, facendo conoscere i canti e le tradizioni della nostra terra. E poi il ricordo delle udienze con i vari Pontefici in Vaticano, i dischi incisi, i libri.
La tentazione di vagare lontano con la mente e farsi sopraffare dai ricordi è forte.

CLUSONE, UN LEGAME INDISSOLUBILE

Legata indissolubilmente al Coro Idica “che ha girato il mondo” è però anche Clusone, con le sue strade e antiche piazze, le stesse dove i giovanotti cantavano le “pastorelle” e dove la tenacia del coro è riuscita a portare canti da ogni parte del globo in occasione delle sette edizioni del Festival Internazionale dei Cori di Clusone (fra il 1972 e il 2007) a cui hanno partecipato oltre sessanta gruppi dei vari continenti. Sentirli parlare lingue diverse ma cantare all’unisono la “Madonnina dei Campelli” del Maestro Dubiensky ha certamente ripagato gli sforzi dei coristi e l’entusiasmo del pubblico.

Il Coro Idica sulla scalinata della Basilica di Santa Maria Assunta di Clusone

QUARANTA VOCI, UN’ANIMA SOLA

A 63 anni di distanza, del gruppo fondatore è rimasto solo Alberto Rondi, che ancora canta. Accanto a lui, tanti veterani e qualche giovanotto, anche se le nuove leve purtroppo scarseggiano. Due prove a settimana, concerti e trasferte sono certo un bell’impegno, ma amicizia e coesione legano i coristi di tutte le età, così come gli straordinari incontri nelle trasferte.

I soci fondatori

Il coro Idica è questo: quaranta voci e un’anima sola. Chi non c’è più rivive nei ricordi e nelle voci dei compagni. Ricordiamo Cesare Ferrari, fondatore e storico Presidente del coro, Gianni Mazzoleni e Vincenzo Mazzoleni, detto Doro, scomparso di recente, che incarnava appieno lo spirito del gruppo e gli storici maestri: il fondatore Dubiensky e Gianluigi Bigoni. Da loro la bacchetta è passata a Marco Rovaris e poi all’attuale direttore, Gianlorenzo Benzoni.

Ma perché limitarsi a fare da spettatori? Le porte del Coro Idica sono sempre aperte per chi crede nella bellezza del cantare insieme: per una prova è possibile contattare Tito (tel. 347.2143445). L’entusiasmo dei coristi e il calore del pubblico sapranno ricompensarvi.

 

IL CANTO
Viva la gioventù,
viva l’anzianità
(cantando insieme)

Andrea Scandella e Gabriele Barzasi, due giovani componenti del Coro Idica hanno composto un canto, legato allo spirito che unisce i coristi.
Il brano è ancora senza titolo… aspettiamo suggerimenti dai lettori!

1) Essere giovani, essere giovani
voglia di vivere
tempo di ridere
Essere giovani, essere giovani
voglia di vivere
e di cantar
E per i giovanotti
è sempre primavera
e quando vien la sera
si vanno a divertir.
E con le ragazzine,
la gioia dentro al cuore,
e scoprono l’amore
che poi li brucerà.
Ah, ah
Viva la gioventù!
2) Essere anziani, essere anziani
con l’esperienza
con la coscienza
Essere anziani, essere anziani
cantare ancora
con emozion
E per i vecchierelli
è ancora primavera,
se scende già la sera
sen vanno a riposar.
E guardano negli occhi
l’amore di una vita
e non è ancor finita
la lor felicità.
Ah, ah
Viva l’anzianità!
FIN.) Anziani e giovani,
cantando insieme,
si voglion bene
e bevon vin!
I vecchi guidano,
i ragazzi imparano
che nella musica
non esiste età!

 

PER MAGGIORNI DETTAGLI: www.coroidica.it

 

Articolo di Clara Bassani per VALSeriana & Scalve Magazine – primavera 2020

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Un tè con il Principe https://www.valseriana.eu/blog/un-te-con-il-principe/ Tue, 10 Mar 2020 13:12:29 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=41866 «La aspetto domani alle 15 per un tè».
Quando un invito così arriva da un Principe e sei cresciuta negli Anni ʼ90 a pane e Cenerentola, il pensiero non può che volare subito a zucche, topolini, carrozze e balli.

Con questo stato d’animo, e il solito look da ufficio (ben lontano dal bellissimo abito di Cenerentola) con scarpe argentate (la cosa più simile alla scarpetta di cristallo che ho trovato, perché diciamocelo, la scarpetta fa tutto), all’indomani sono all’esterno della cancellata, in una giornata di quelle che solo ottobre sa regalare e che fa sembrare Palazzo Fogaccia di Clusone un posto fatato.

Sono in leggero anticipo e la mia conoscenza di buone maniere in quanto a Prìncipi è alquanto risicata. «Devo aspettare le 15 in punto – mi chiedo – o alle 15 devo essere già seduta? Devo suonare il campanello o verranno ad aprirmi?»

Nel dubbio trascorro i minuti di vantaggio a rimirare la facciata e il giardino, appostata con la macchina fotografica, più simile a Robin Hood che a Cenerentola. L’orario è perfetto: il muro rustico della facciata sud dà il meglio di sé con il sole pomeridiano che evidenzia in un disegno preciso le pietre scure delle cornici delle finestre e dei portali. Mentre osservo le dieci aperture quadrate del primo piano, le grandi finestre del piano nobile, le aperture del terzo piano e il balconcino centrale che sembra dare il benvenuto ai visitatori, non posso fare a meno di tornare indietro nel tempo: me lo immagino qui, proprio nell’angolo di via Fogaccia, Giovan Battista Quadrio (figlio del Gerolamo che lavorò alla fabbrica del Duomo di Milano) nel 1692 a disegnare l’architettura del palazzo su richiesta del conte Vittorio Maria Fogaccia.

I rintocchi del campanile mi riportano alla realtà: non si arriva in ritardo da un Principe, non si sa mai, potrei trasformarmi in una zucca. Mi accoglie il custode e mi fa attendere nell’atrio.
Mi godo il momento: non è la prima volta che entro da questa porta, ma è la prima in cui posso ammirarlo completamente da sola. Ferma con il naso all’insù nell’ampio androne silenzioso mi sento ancora più piccola. Non è colpa delle scarpette argentate senza tacco, ma merito dell’imponenza della struttura Settecentesca che richiama una magnificenza sobria, elegante. Niente è eccessivo, tutto sembra al posto giusto per mettere in risalto le splendide vetrate e l’orologio a pendolo (è originale, a pietra, come scoprirò più tardi).

«Prego, entri pure» e mi ritrovo nel bellissimo salone, tra quadri di Querena, Carpinoni e Bettera, fotografie e libri che raccontano l’ultimo secolo di vita del palazzo. Il Principe Alberto Giovanelli mi aspetta davanti al quadro del Fassi che ritrae il nonno e io mi sento sempre più piccola, circondata da testimonianze del passato e del presente, sotto al soffitto affrescato che lascia a bocca aperta.
Lo smarrimento dura poco, perché la gentilezza e la galanteria con cui Giovanelli accoglie i propri ospiti riesce a far sentire a casa, (anzi, è il caso di dire “a palazzo”), chiunque varchi la soglia.

Iniziamo la nostra chiacchierata e non posso fare a meno di chiedermi se non sia proprio il Principe Azzurro quando mi offre un caffè, anziché un tè (che i Principi leggano nel pensiero?), e subito sono catapultata indietro di un secolo. «Per quasi cento anni il palazzo è stato oggetto di divisioni, in diversi ne reclamavano la proprietà. La spuntò Piero Fogaccia, avvocato di Bergamo, che tra il 1927 e il 1930 procedette alla ricostruzione, ma ci credi che glielo consegnarono completamente nudo? Lasciarono solo tre cose: il pendolo, un trumeau e il quadro del Paglia». Mi indica il quadro e non stento a capire il perché: l’opera di Francesco Paglia, allievo del Guercino, che raffigura una festa nel parco con il Conte Fogaccia e la sua famiglia occupa un’intera parete del salone, è monumentale e regala un’aria di festa alla stanza. Non proprio semplice da spostare e da collocare in un salotto sopra un divano, insomma.

Tra un sorso di caffè e un biscotto, il Principe continua il racconto della vita del palazzo che, mi dice, pochi sanno essere stato sede di un Ministero. «Per evitare i grandi centri, oggetto dei bombardamenti, tra il 1943 e il 1945 molti ministeri vennero trasferiti nelle piccole cittadine e qui arrivò quello delle Colonie. Io e mio fratello Carlo giocavamo lì – mi racconta mostrandomi una parte del bellissimo giardino – e spesso incontravamo i funzionari sullo scalone che porta alla galleria. Pensa che vent’anni dopo, a Roma, sono andato all’Eur per sbrigare alcune pratiche e mi ha accolto un signore anziano, molto distinto. Sente il mio nome e mi dice: «Il Principe Giovanelli? Lei è di Clusone!». Era uno dei funzionari del Ministero. Guarda come il Palazzo ha aiutato a far conoscere il nome di Clusone».

Crescere a Palazzo Fogaccia non è cosa da tutti, chissà come era il Natale da bambini in questo splendido salone. «Lì nel camino allestivamo un presepe bellissimo. Mio padre ha sempre avuto talento per la pittura e creava uno scenario splendido. Invece qui, dove sei seduta tu, mettevamo un abete altissimo. Chiudevamo le persiane per rispettare l’oscuramento e poi accendevamo le lucine. Era magico. Nel 1945 anche un generale tedesco ha voluto vedere la sala addobbata e sono andato lì – mi indica l’ingresso – a dargli il benvenuto. Sapevo il tedesco nonostante fossi un bimbo di 5 anni: la mia schwester parlava solo così, mentre i miei genitori parlavano in italiano (ovviamente), in inglese e in francese».
Rifletto sul fatto che sono seduta dove si sono seduti ministri, generali e principi. In centro a Clusone, non a Roma o a Venezia. «Non solo, cara. Anche un Papa. Roncalli era molto legato a Piero Fogaccia e in occasione della sua visita del 1957, quando era Patriarca di Venezia, venne a trovare mia zia, la Contessa Marietta, che gli offrì un banchetto sontuoso. Mica come ho fatto oggi io con te, molto di più. Immaginati: biscotti, torte, tè, caffè, tutto apparecchiato in modo sfarzoso per il Cardinale. Si sedettero lì davanti al quadro del Paglia e, ammirando quel banchetto, lui le disse: «Neh Marietta, non hai mica un bicchiere di vino rosso?».

Mi sembra di avere fatto un viaggio nella storia, oltre che nel palazzo, e se chiudo gli occhi riesco quasi a vedere la Contessa Franca Giulia Fogaccia, madre del Principe, su quella carrozza nera che ancora accoglie i visitatori all’ingresso, mentre si avventura verso la Presolana per portare un po’ di provviste ai partigiani che non avevano cibo. Ma il tempo corre e ci apprestiamo a salutarci.

«Mi tolga una curiosità. Da clusonese per me questo palazzo è quello che ti ricorda che è la tua città, che sei a casa. Ma per lei è casa davvero: come vive Palazzo Fogaccia il proprietario di Palazzo Fogaccia?» «Mi prenderai per matto ma io qui parlo con i miei antenati sai? Glielo dico sempre, non sono il proprietario, sono il custode di questo luogo, custodisco quello che loro hanno vissuto qui. Questo è il posto in cui ho trascorso momenti bellissimi da bambino e dove ora passo la maggior parte del mio tempo, quando non sono a Roma». Decido l’azzardo, timorosa della risposta: «Mi dica la verità, lei si sente più romano o più bergamasco?». Risponde senza esitazione: «Più clusonese».

Non ho più dubbi, è davvero il Principe Azzurro. E mentre mi accompagna all’uscita non posso fare a meno di guardare la carrozza e dire: «La ringrazio tanto, mi ha fatto sentire un po’ Cenerentola». E tutto mi sarei aspettata tranne che di sentirmi rispondere: «Ma hai portato anche Gas Gas e gli altri topolini?».

 

Promoserio, in collaborazione con Artelier, organizza visite guidate al magnifico Palazzo. Scopri qui tutti i dettagli sulle prossime date in programma.

Articolo di Martina BIFFI Per VALSeriana & Scalve Magazine

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Farina… di Zucca https://www.valseriana.eu/blog/farina-di-zucca/ Sat, 01 Feb 2020 10:25:12 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=41842 Un grande artigiano dal viso rotondo e rassicurante che lavora in un piccolo paese della ValSeriana: Casnigo. Tutti i giorni si sveglia all’alba per preparare un pane molto speciale, così speciale che dieci anni fa è stato scelto per rappresentare l’intera Bergamasca, e che dopo una consultazione pubblica istituita per l’occasione è stato battezzato “Garibalda”.

Parliamo di Giacomo Zucca, dell’omonimo, premiatissimo panificio (inserito tra i migliori d’Italia dal noto critico gastronomico Paolo Massobrio nella sua guida “Il Golosario”) «che esiste da ben quattro generazioni: ha cominciato mio nonno nel 1880», racconta. La passione per il suo lavoro traspare dagli occhi vispi, dalle parole genuine con cui descrive la ricerca delle migliori miscele di farina, le prove ripetute per portare una ventata di innovazione nei tradizionali processi produttivi (preservandoli) e gli assaggi con il coinvolgimento degli amici.

LA GARIBALDA

GLI INGREDIENTI

Il pane La Garibalda nasce per un concorso, poi vinto, organizzato da Aspan (Associazione Panificatori) e Camera di Commercio. «È un pane costituito da quattro tipi di farina – precisa Zucca – semola rimacinata di grano duro, farina integrale, grano saraceno integrale, farina fumetto di mais, ora Spinato, con aggiunta di olio extravergine di oliva e la biga di riporto. Quest’ultimo è un preimpasto che viene lasciato fermentare e a cui poi si aggiungono altre dosi di ingredienti per creare l’amalgama finale che è sottoposto a una ulteriore fermentazione. Con questi ingredienti si va a comporre l’impasto il cui frutto è, appunto, la Garibalda».

LA PREPARAZIONE

Sono due le dimensioni in cui viene tagliato tale impasto: da cento e settecento grammi. Dopo un’ulteriore lievitazione di un’ora, massimo un’ora e un quarto, nell’apposita cella a trenta gradi centigradi, raddoppia il suo volume rispetto a quello iniziale ed è pronto per essere infornato. Dovrà cuocere 40-45 minuti, spandendo un aroma fragrante. Il risultato è splendido: la crosticina è croccante e di un colore rassicurante, né troppo chiara né troppo scura, con una mollica leggera e saporita. L’idea di partenza è stata quella di creare un pane rustico, capace di accompagnarsi egregiamente sia col salato che col dolce. Missione compiuta.

La Garibalda è uno dei molti Sapori Seriani >>> Scopriteli tutti

L’artigianalità manuale tipica dell’arte bianca non esce stravolta da queste nuove produzioni. Rafforzata dall’interno, piuttosto, tant’è che dal forno di Casnigo sono uscite ed escono le miscele di farina per i ristoranti. Grazie al Mais Spinato nascono anche delle eccellenti fave dei morti che abbiamo avuto la fortuna di assaggiare: un biscotto perfettamente fragrante e allo stesso tempo tenero, dal sapore equilibrato, senza eccedere in dolcezza e nell’aroma di anice, «che alla lunga stanca». C’è pure la granella di nocciola. «Una tira l’altra», dice l’artigiano. «Verissimo», ribadisco con la bocca piena. E la stessa sapienza viene messa a servizio delle preparazioni stagionali che si alternano nel corso dell’anno.

IL PANE DI ALEX E SYLVIA

La solidità delle competenze di Giacomo Zucca ha trovato una nuova conferma con il premio nazionale per il concorso “Il pane di Alex e Sylvia” (prima edizione), in occasione del Sigep 2017 di Rimini, il Salone internazionale per panificazione, pasticceria e dolciario.
L’obiettivo del concorso era quella di individuare e premiare il cosiddetto “pane della condivisione dei popoli europei”, un progetto nato nell’ambito del Padiglione Europa, in occasione di Expo 2015, e nel contesto di ricerca “La civiltà del pane”.
Il suo prodotto ha superato l’esame visivo e primeggiato per esperienza olfattiva, retrolfattiva, gustativa. Apprezzata la “struttura” del pane: una categoria che comprende croccantezza della crosta e masticabilità.

Giacomo Zucca con la moglie Mariangela Castelli

GLI INGREDIENTI
«Farina integrale, farina di tipo 1 Bergamo, invero del territorio e quindi a “Km Zero”, e fiocchi d’avena», chiarisce Zucca, classe 1969, residente a Casnigo ma originario della frazione di Orezzo di Gazzaniga.

 

Articolo di Fabio Cuminetti per VAL – inverno 2019

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Lola, una vita in salita: col sorriso https://www.valseriana.eu/blog/lola-una-vita-in-salita-col-sorriso/ Sun, 24 Nov 2019 21:58:19 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=40752 Basta una finestra, a volte, per cambiare tutto. Prospettive e angolazioni,
ma anche vita. La vita di Eleonora Delnevo, per tutti LolaMi chiamano così sin da piccola perché non riuscivo a dire il mio nome e dicevo semplicemente “Lola”»), è effettivamente cambiata davanti a una finestra. O quasi.

Mentre parla, ogni tanto si gira e osserva gli alberi mossi dal vento fuori dalla grande vetrata del salotto, che occupa un’intera parete della sua nuova casa di Albino. Lei non è mai stata una ragazza della Bassa. Ci è nata, ci ha vissuto a lungo, ma «la ValSeriana è sempre stata parte di me. Qui venivo ad arrampicare, qui avevo i soci con cui giravo per le montagne. Sono una valligiana mancata e mi hanno adottata praticamente».
Ora che valligiana lo è per davvero, sorride davanti a quel panorama che le regala serenità. «Quando sono riuscita a vendere la vecchia casa, mia madre mi fa: “Ma non ti dispiace un po’?”. Zero proprio. Anzi, avrei voluto e dovuto farlo prima, ma ero sempre in giro e non mi decidevo. Giù, tra le nebbie in inverno e il caldo soffocante in estate, non ne potevo più. Conoscevo già tanta gente qui, era casa anche prima che comprassi casa. Volevo un posto dove potessi vedere qualcosa dalla finestra e che mi permettesse di uscire senza per forza prendere la macchina. Poi non lo faccio tantissimo, in realtà sono un po’ lazzarona…».

Lazzarona, lei. Lei, che va in kayak; lei, che più della metà della sua vita l’ha passata a scalare montagne; lei, che anche in carrozzina e senza poter muovere le gambe dopo un tragico incidente avvenuto in montagna nel 2015 ha scalato la parete più ardua e mitologica del mondo, El Capitan. Lazzarona, come no. Glielo si fa notare, lei ride. «Che ti devo dire: scalare montagne e viaggiare per fiumi ok, per il resto sono una vera pigrona…». Sarà, ma a vedere i muscoli delle braccia e il viso abbronzato dal sole dei monti
non si direbbe. Però le crediamo. Perché arrampicata e kayak, per lei, non sono uno “sforzo”, sono semplicemente l’essenza, il tutto, «l’istinto primordiale» come lo definiva Walter Bonatti.
«Istinto? Sì, mi piace. È vero. Per me era normale scalare, immergermi nei boschi e poi salire le pareti. Mi piaceva tutto». Usa il passato. «Mi piace ancora, tantissimo. Ma è un’altra cosa. Piaccia o meno, nelle mie condizioni non posso più arrampicare. Posso fare tante cose, ma diverse. Non posso pretendere che mi portino tutti i mesi a scalare El Capitan. È bellissimo, lo rifarei domani, soprattutto con le persone giuste, ma non è arrampicata. Non è uno sport per disabili in carrozzina».

Eppure Lola, anche senza l’uso delle gambe, ha compiuto un’impresa
che solo i più grandi sono riusciti a compiere, ovvero scalare la montagna più famosa dello Yosemite National Park (Stati Uniti), il posto dove, di fatto, l’arrampicata come la conosciamo oggi è nata. Lola lo ha fatto con la stessa leggerezza con cui è sempre salita in montagna, con cui ha scalato dieci, cento, mille volte la Grigna. Leggerezza, non superficialità. Col sorriso di chi adora le cose semplici e non si aspettava certo il clamore che è seguito alla sua impresa, realizzata insieme agli amici Mauro “Gibe” Gibellini, Diego Pezzoli e Antonio Pozzi. Ci aveva già provato nel 2016, ma quella volta era andata male: «Dovevamo essere in quattro anche quella volta, ma rimanemmo in tre. Abbiamo voluto provare comunque, ma eravamo troppo lenti. E allora siamo scesi». Messa così, potrebbe sembrare che scalare El Capitan rappresentasse un po’ l’ossessione di Lola e i suoi amici, ma non è corretto.
«In realtà il tentativo, poi andato a buon fine, del 2018 è nato per caso. Il Gibe si è sposato e con sua moglie è andato in viaggio di nozze negli Usa. È stata loro l’idea di dedicare l’ultima settimana del loro viaggio a El Capitan. Io e gli altri ci siamo imbucati, diciamo».

Nessuna ossessione, nessuna impresa. «Il clamore ci ha stupiti perché, francamente, per noi era normale. Certo, quella è una montagna mitica e la via che abbiamo scalato noi, la Zodiac, ha una storia. Ma alla fin dei conti abbiamo fatto quello che avevamo sempre fatto: raggiungere una montagna e salire in vetta».
Senza gambe, però, è un po’ diverso…
«Sì, è vero. Soprattutto per la logistica. Ma non mi piace quando mi dicono che per quello che ho fatto sono un esempio, un modello. Non mi ci rivedo in quei panni. Fa piacere, ok, ma io penso che se si vuole fare qualcosa, basta avere la volontà. Poi il “come” arriva da sé».

E la volontà, a Lola, non manca di certo. Non tanto per come ha affrontato l’incidente e la disabilità («Anche involontariamente, le prove affrontate in montagna credo mi abbiano permesso di girare pagina in fretta. Ti porti dentro talmente tante esperienze che, alla fine, reagire ti viene spontaneo»), quanto per come ha deciso di percorrere la vita: sempre in salita. Quasi per scelta, più che per necessità: «Salire è bello. Faticoso, ma anche appagante. La salita è figa. Il problema, semmai, è la discesa…». Lei in discesa non ci vuole andare. E
così, quando ha capito che l’arrampicata non faceva più per lei (o quasi), si è messa in acqua.
Una nuova sfida, una nuova salita.
«Ci ho messo un anno ad abituarmi al kayak, ma ora me la cavo. Mi piace perché anche in questo sport sono all’aperto, in mezzo alla natura, immersa nel mondo “vero”. È molto diverso dall’alpinismo: in montagna sei tu che detti il tempo, il ritmo. Se ti vuoi fermare puoi farlo. Sul kayak invece devi assecondare la corrente, ascoltarla e capirla. È tutta un’altra cosa. Cambia proprio l’approccio mentale».

«Sì, salire mi piace. Come vedi, alla fine sono salita anche in Valle finalmente», dice alla fine sorridendo. E guardando nuovamente fuori dalla grande finestra del salotto. Viene spontaneo allora chiederle cosa vede
quando guarda oltre la vetrata. «La gente, innanzitutto. La ValSeriana, per me, è le persone che ci vivono, quelle che mi hanno fatto innamorare di lei con il loro temperamento e la loro umile gentilezza. E poi… vedo la Presolana, dove c’è la Baita Cassinelli, la mia preferita. Ci andavo anche da sola, in settimana. Sono posti dove ti metti lì e basta, spegni tutto e sei in pace col mondo. Certo, possono migliorare tante cose eh. Pochi, ad esempio, hanno il coraggio di investire davvero sulle bellezze della ValSeriana. Io dico sempre che dovremmo aprire i sentieri, gli hotel, le funivie. Dovremmo aprirci al mondo, investire su noi stessi e le nostre ricchezze. Solo così riporteremo la gente sulle montagne. Ti faccio un esempio: il Chicco e la Sandra. Sono i due ragazzi che gestiscono il Rifugio Albani. Da quando ci sono loro è sempre pieno. Si sbattono un sacco, propongono iniziative, ma soprattutto sorridono e ci sanno fare con le persone. Piccole cose, semplici, che però rendono speciale la giornata e il posto. Fidati, un sorriso vale più di mille eventi mondiali da record. Così porti le persone in montagna: col lavoro e la simpatia, con la fatica e la semplicità».

Mica facile, una strada tutta in salita. Ma ce lo ha insegnato proprio Lola: la salita è una figata; il problema, semmai, è la discesa…

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Mulini verticali https://www.valseriana.eu/blog/mulini-verticali/ Tue, 22 Oct 2019 13:06:10 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=40106 La Valle dei Mulini è un angolo verde e azzurro ai piedi della Presolana. Dall’antico borgo di Rusio, nel territorio di Castione della Presolana, conduce nel cuore del massiccio della Regina delle Orobie.
La località deve il suo nome alla presenza secolare di numerosi mulini, ormai dismessi a eccezione di uno, lungo il corso del torrente.

L’acqua è fonte di refrigerio nelle calde giornate estive e suggestivo ingrediente al paesaggio verde e rigoglioso di queste quote.
La Valle dei Mulini è apprezzata sia per le sue qualità naturalistiche sia per le sue pareti di roccia che, da Rusio andando verso monte, accolgono il greto del torrente.

Le falesie sono state valorizzate e attrezzate in diversi settori grazie a locali climbers, con numerose vie d’arrampicata.
Per gli appassionati di questo sport si tratta di un vero e proprio paradiso. Arrivano da ogni parte del mondo, richiamati dalla qualità della roccia: un calcare che leviga le dita, che strapiomba e che non lascia nulla in sospeso.

SCOPRI LE INFORMAZIONI TECNICHE SULLE FALESIE DELLA
VALLE DEI MULINI

Consapevoli della potenzialità ancora troppo inespressa, un gruppo di amici riunito nell’associazione Presolana Climbing ha deciso nel 2017 di dedicare tempo e impegno al progetto di valorizzazione delle falesie di questa verde valle. Il gruppo è capitanato da Pierangelo “Pier” Giudici, appassionato di scultura, pittore a tempo perso e innamorato della verticalità fin da giovane.

Quando lo incontro, Pier mi racconta della sua passione e di quella del gruppo di persone che da un paio d’anni investe, a titolo personale e disinteressato, nella promozione e nel potenziamento delle opportunità di arrampicata a Castione della Presolana.
I Presolana Climbing si sono concentrati in particolare sul potenziamento della Valle dei Mulini e dei suoi settori di arrampicata.

Castione vanta anche altre falesie altrettanto nobili: Corna Rossa e Lantana, senza dimenticare l’arrampicata in terreno d’avventura della Presolana.
Il loro obbiettivo è quello di mantenere costantemente la roccia ripulita da erbe e rovi, attrezzare e mettere in sicurezza vie d’arrampicata nuove ed esistenti, organizzare eventi di lancio e chiodare nuovi settori.

Si tratta di un impegno fondamentale e dal valore inestimabile per la fruizione e la promozione del turismo attivo in Alta ValSeriana.
La scelta di puntare sulla Valle dei Mulini nasce proprio dalla convinzione che qui ci sia un potenziale assolutamente inespresso, che sia un vero e proprio paradiso per l’arrampicata.

«C’è molto da fare per valorizzarla – spiegano – e il potenziale dei settori anche inesplorati è altissimo. In questi anni di lavoro sono stati aperti quasi duecento monotiri con diversi gradi di difficoltà ma è necessario continuare a investire in questo luogo speciale».

Il gruppo Presolana Climbing ha gestito per due anni la palestra artificiale d’arrampicata di Castione della Presolana, palestra che ora è gestita da Giorgio Masserini, istruttore di arrampicata sportiva. Giorgio è uno dei personaggi simbolo della Valle dei Mulini: a un passo dal trasferimento della residenza in valle, trascorre la maggior parte del suo tempo libero a scalare, pulire, chiodare e migliorare questa timida porzione di Presolana.

L’evento di punta del gruppo è “Mulini Verticali” un meeting d’arrampicata giunto quest’anno alla terza edizione.
Una due giorni con ospiti di grido del mondo dell’arrampicata nazionale, come Stefano Ghisolfi (campione europeo e tra i quattro climber ad aver scalato un 9b+, grado massimo di difficoltà tecnica fino a ora raggiunto). Un’occasione in cui semplici dilettanti e professionisti sfidano se stessi, fianco a fianco, sulle pareti calcaree.
L’evento richiama centinaia di appassionati d’arrampicata ed è senza dubbio un efficace e formidabile canale di promozione.

La voglia di divertirsi unita alla volontà di migliorare l’offerta outdoor della Presolana sono i tratti caratterizzanti di un gruppo di amici che, per pura passione, stanno investendo molte risorse per rilanciare l’emozione verticale in ValSeriana e ridare valore a un angolo di paradiso con una forte potenzialità di sviluppo.

Basta provare, e crederci!



LEGGI QUI L’INTERVISTA COMPLETA A PIERANGELO GIUDICI
PRESIDENTE DI PRESOLANA CLIMBING 

 

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Da Albino a Gandellino, un gelato per la ValSeriana https://www.valseriana.eu/blog/da-albino-a-gandellino-un-gelato-per-la-valseriana/ Tue, 23 Jul 2019 13:42:44 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=38199 La ValSeriana: un grande territorio di bellezze artistiche, di tradizioni e di sapori.

Partendo dal confine di Bergamo fino ad arrivare in alta montagna, abbiamo la fortuna di godere di una Valle dove gli associati di PromoSerio comunicano fra di loro portando avanti progetti e idee.

Il motivo principale? L’amore per il territorio della ValSeriana.

La stagione estiva 2019 è partita quest’anno arricchendosi di un nuovo prodotto “made in valseriana”: il gelato Yogaromel5.

Sergio Pezzoli e Andrea Risi, titolari rispettivamente del Laboratorio Gelateria Franca ad Albino e dell’Azienda Agricola Ronchello di Gandellino, si sono messi alla prova con il semplice obiettivo di offrire una ventata di freschezza ai sapori della ValSeriana.

Lo staff di PromoSerio è andato a conoscere il risultato del connubio fra queste due realtà.

Gentili Sergio e Andrea, complimenti intanto per essere riusciti a creare nel giro di poco tempo un nuovo prodotto che possa raccontare i sapori seriani. Vi potete presentare e raccontarci brevemente di voi?

Sergio Pezzoli: La Gelateria Franca è una storica gelateria fondata dai genitori di mia moglie, una gelateria a gestione familiare. Quando i Sig.ri Cornalba andarono in pensione, l’attività era davvero grande da gestire con 50 tavoli (200 coperti circa) con tanti dipendenti impegnati soprattutto nei weekend. I soci nel tempo cambiarono e anche io decisi di cambiare lavoro (lavoravo al tempo come contabile) e dedicarmi alla passione per il gelato dando vita al Laboratorio Gelateria Franca in società con la moglie Lauretta e grazie al prezioso aiuto di ottimi collaboratori. In laboratorio realizziamo diversi gusti di gelato fornendo molte gelaterie e ristoranti della valle, nonchè le gelaterie a marchio “Gelateria Franca“. Il nostro segreto è la scelta delle materie prime e la base che viene sempre creata artigianalmente da noi.

Andrea Risi: L’Azienda Agricola Ronchello nasce nel 2010 su idea di mio padre ed è stato proprio grazie a lui che nel corso degli anni siamo riusciti a creare un  balsamico che ci legasse all’alta ValSeriana e soprattutto a Gandellino. Siamo di origini milanesi e conoscevamo la ValSeriana perchè ci venivamo spesso in villeggiatura. Io sono laureato in architettura ma ho sempre coltivato un grande interesse nei confronti dell’apicoltura. L’amore per la valle ci ha spinto non solo ad abitarci ma anche a fondare un’azienda agricola. Mio padre ha cominciato creando un nuovo miele, inizialmente utilizzando il miele millefiori di Gandellino – ma per andare incontro alla tradizione dei boscaioli che al tempo andavano a lavorare in Francia, desiderava inserire nel nostro Miele la resina dell’abete bianco. Dopo cinque prove, siamo giunti alla ricetta perfetta del nostro balsamico di montagna: Aromel5®.

Aromel5® è composto da miele di melata, ottenuto da secrezioni zuccherine, che oltre avere delle qualità curative, contiene pochi zuccheri e soprattutto tanti sali minerali.  Inoltre Aromel5® è ideale per chi pratica sport, perchè libera le vie respiratorie e lo sportivo si ossigena quindi meglio. Un balsamico contro i malesseri stagionali e che racchiude le essenze più rappresentative dell’Alta ValSeriana.

Tornando al prodotto che avete realizzato, ci potete dire di cosa è composto il gelato Yogaromel5 e com’è nata l’idea di combinare lo yogurt al miele di montagna?

Sergio Pezzoli: L’idea nasce dall’input di un cliente; ricordo che non molto tempo fa avevo realizzato un gelato al gusto yogurt al pistacchio con granelle di nocciole. Un cliente lo provò e dopo un attimo mi chiese “Ha mai pensato di creare un gelato con il miele della zona, della ValSeriana?”

Non ci ho pensato due volte e all’interno della rete di PromoSerio sono entrato in contatto con Andrea dell’Azienda Agricola Ronchello. Ci siamo incontrati e conosciuti. Da subito Andrea mi ha proposto di utilizzare il loro balsamico di montagna per la realizzazione di un nuovo gusto, difatti erano diversi anni che l’Azienda Agricola Ronchello aveva già in mente un gelato al gusto Aromel5®.

Dopo diverse prove in cui non si riusciva a trovare la combinazione vincente, una notte mi son svegliato di soprassalto e mi son detto “proviamo a fare con questo metodo…”. Il giorno dopo in laboratorio, sapevo già che bilanciando da una parte, togliendo da un’altra parte, sarei giunto alla ricetta giusta.

Yogaromel5 è composto da una base di yogurt e miele di Melata, arricchito con olii essenziali di eucalipto, menta, timo, propoli, echinacea, pino e rosa canina.

Sergio Pezzoli: Non a tutti piace il balsamico, tuttavia quando si va a prendere un cucchiaio del cremoso yogurt, il tocco del balsamico è davvero delicato e giunge solo alla fine come leggero piacevole retrogusto. Solitamente non è facile trovare un gusto che possa piacere a tutti, ma anche all’interno del laboratorio, Yogaromel5 è stato apprezzato da subito da tutti i dipendenti e adesso lo stiamo promuovendo alla nostra clientela.

È un gelato che si può trovare in gelateria tutto l’anno?

Sergio Pezzoli: Si esatto, per questo l’abbiamo denominato “il gelato balsamico adatto per tutte le stagioni“.  Abbiamo pensato di creare insieme un gusto di gelato che potesse combinarsi con dei gusti più caldi per l’autunno o inverno, come i fichi, le castagne, la mela cotta con la cannella, il cioccolato oppure con qualcosa di più fresco abbinandolo alla frutta in primavera o in estate.  I clienti delle varie gelaterie stanno facendo nuovi ordini di Yogaromel5 ed essendo questo un primo esperimento, siamo felici che stia già funzionando sia nella ristorazione sia nella coppetta da servire al cliente.

Il Laboratorio Gelateria Franca e l’Azienda Agricola Ronchello sono delle grandi realtà in ValSeriana che hanno ricevuto delle certificazioni importanti come “Una Goccia D’oro” per il miele di castagno per l’azienda Ronchello ed il primato nella creazione del gelato al gusto Mais Spinato di Gandino per conto del ristorante Centrale la  Spinata di Gandino. 

Cosa vi augurate con questo prodotto e per la ValSeriana? 

Sergio Pezzoli: Ci auguriamo che venga apprezzato lo sforzo di esserci messi in gioco. Non è facile mettere d’accordo due persone provenienti da mondi tanto diversi per la realizzazione di un prodotto comune.

Il nostro contributo è stato quello di creare un gusto di gelato del territorio, per dare maggior senso di appartenenza alle montagne della ValSeriana.

Andrea Risi: Un territorio meraviglioso ma che vorrei stesse al passo con i tempi, sia dal punto di vista delle strutture alberghiere che necessitano di un tocco di modernità sia soprattutto di un piano di mobilità a lungo termine con la speranza di poter portare la TEB a Clusone e facilitare le tante famiglie che dalla bassa valle o da Bergamo vogliono visitare l’alta ValSeriana senza rimanere incastrati nel traffico.

Per il territorio della ValSeriana ci auguriamo noi tutti un futuro di collaborazioni e che non si fermi mai. Al contrario che sappia ripartire sempre da tutto ciò che di bello ha da offrire.
Grazie Sergio e Andrea per la preziosa collaborazione.

Curiosi di conoscere dove potete trovare il nuovo gusto gelato della ValSeriana? 

Visitate il sito internet del Laboratorio Gelateria Franca per scoprire i nuovi gusti, rimanere sempre aggiornati ed entrare in contatto con Sergio Pezzoli.

Potete trovare Yogaromel5:

  • Presso le gelaterie a marchio “Gelateria Franca”
    Albino – in via Provinciale 5/c
    Albino – in via Mazzini 63
    Leffe – in via P. Giovanni XXIII 13
  • Presso i ristoranti della ValSeriana  Scarica la locandina dedicata al gelato

Desiderate conoscere i prodotti dell’Azienda Agricola Ronchello?

Visitate il loro sito internet, grazie ad Andrea Risi avete la possibilità di adottare un’Arnia con fornitura di Miele artigianale per un anno.

Il progetto Adotta un’Arnia è perfetto per chiunque sia interessato ad un alimentazione sana e all’apicoltura di montagna, tuttavia non sia in grado di avere alveari a causa della spesa, dello spazio o del tempo limitato.

Presso il sito internet vengono proposti due pacchetti che garantiscono una fornitura di miele annuale e una visita presso l’Azienda Agricola Ronchello.

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Duri a Motore https://www.valseriana.eu/blog/duri-a-motore/ Sat, 15 Jun 2019 14:26:33 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=37342 Era il 9 novembre 1997 quando io e il nonno Giovanni partimmo per la 36^ edizione della Cavalcata della Valli Orobiche. Pioveva a dirotto ed era una domenica freddissima. Nonostante le raccomandazioni della nonna e di mia madre, decidemmo di prendere i nostri scooter per raggiungere il punto di ritrovo al parcheggio Iper di Seriate. L’arrivo era previsto a San Lorenzo di Rovetta. Io avevo un Aprilia SR 50, regalatomi da mio padre Walter, appassionato di enduro e responsabile dei percorsi di gran parte delle ultime “Valli Bergamasche”, la gara motociclistica di regolarità nata nel 1948. Per la Cavalcata di quell’anno papà Walter era uscito all’alba, impegnato alla partenza dei trial in Val Borlezza e aveva chiamato a casa dicendoci di partire comunque: «La manifestazione si fa!».

Walter Manera, Giovanni Sala e Andrea Gatti all’ultimo Mondiale a Rovetta

LA CAVALCATA… UN PO’ DI STORIA
La Cavalcata nacque negli anni ’60, ideata da Fulvio Maffettini, grande tracciatore delle Valli Bergamasche, e Giamprimo Casari, che portò la manifestazione a livello nazionale. L’idea di questi maestri era quella di creare una gara di regolarità non solo per i piloti, ma anche per tutti quelli che “lavoravano dietro le quinte”: tecnici, cronometristi, addetti ai controlli, responsabili dei percorsi. Una conferma, diretta e lampante, di quanto l’enduro fosse nel DNA degli appassionati Bergamaschi.

Inizialmente riservata ai soli enduristi e considerata una gara vera e propria, la Cavalcata si trasformò in seguito in una non competitiva a coppie e si allargò ad altre categorie.

Vennero creati percorsi diversificati per enduro, trial, moto d’epoca, moto da strada e scooter. I punti di partenza cambiavano a seconda del mezzo utilizzato, ma l’arrivo era unico per tutti. Unica era l’emozione nel vedere tanti appassionati delle due ruote ritrovarsi tutti insieme.

Nella “mia” Cavalcata del 1997 c’erano al via settanta scooter, ma al traguardo ne arrivarono solo sedici. Io e il nonno “Bianco” fummo la coppia più coraggiosa della nostra categoria. O, comunque, a me piace ricordarlo così. Il tempo infausto intimorì molti partecipanti e la manifestazione registrò “solo” un migliaio di partenti. Nel 1994, per esempio, furono più di tremila gli iscritti accolti a Cerete. Io avevo undici anni, ma ricordo il mio paese invaso da trialisti con caschi improbabili, enduristi scatenati e molti stranieri. Una Cavalcata da record.

100 ANNI PER IL MOTOCLUB BERGAMO
Bergamo del resto celebra quest’anno un record prestigioso: il Centenario di fondazione del proprio Moto Club, nato nel 1919 e da sempre fra i maggiori in Italia. Per festeggiare ci sarà un evento iridato: la 43^ Edizione della Valli Bergamasche sarà infatti la quinta prova del Campionato Mondiale di Enduro in programma dal 21 al 23 giugno a Rovetta

Scopri il programma del Mondiale a Rovetta

Una manifestazione destinata ad accendere una passione senza tempo, che nell’ultimo quarto di secolo ha visto in prima fila Andrea Gatti, eletto presidente del Moto Club Bergamo nel 1997. È dagli anni Novanta che sento dire ad Andrea, a mio padre Walter e a tutti gli altri amici che “questa è l’ultima gara che organizziamo”. Sono invece passati trent’anni e ho perso il conto delle competizioni internazionali e non che sono passate sul territorio seriano e scalvino, tra successi, fatiche, gioie e, perchè no, qualche polemica.

La prima edizione della Valli Bergamasche si svolse nel luglio del 1948 quando dal Caffè Savoia di Bergamo partirono una ventina di piloti con le “moto del dopoguerra”. Percorso di 250 chilometri attraverso Valli e Passi per arrivare a Ponte Nossa, uno dei luoghi cari agli appassionati, insieme a Vertova, la cittadina che ha dato i natali ai più forti piloti italiani: pensiamo per esempio ad Alessandro Gritti e Franco Gualdi, più volte campioni europei. Da prova di campionato italiano a classifica generale individuale, la Valli è diventata negli anni ‘70 prova del Campionato Europeo con classifica per classi.

Nel corso del tempo la regolarità è cambiata. Negli anni ‘50-‘60 le classi erano quattro (100, 175, 250 e oltre 250 cc) e le moto utilizzate, per fattura e prestazioni, potevano percorrere solo sterrati non troppo impervi, con classifiche a controllo orario. All’estero le regole erano diverse e il fuoristrada aveva già una sua collocazione sportiva. C’era già la Sei Giorni Internazionale e i percorsi più difficili esaltavano le prestazioni al limite di moto e piloti. Anche gli organizzatori della Valli cominciarono a tracciare percorsi sempre più impegnativi, ricercati in tutta Europa. Oggi viviamo tempi meno pionieristici, e ci sono precise attenzioni legate a permessi di transito, autorizzazioni comunali e sovracomunali, normative sempre più rigide che puntano a evitare problemi ambientali dovuti al passaggio di mezzi motorizzati in montagna.
Da vent’anni il Moto Club Bergamo, supportato da molte amministrazioni locali, propone un percorso permanente per enduristi (a oggi non concretizzato) per soddisfare le esigenze di tutela del territorio e rendere allo stesso tempo fruibile questo sport agli appassionati.

C’è anche chi teme che tutto questo porti a percorsi poco consoni allo spirito dell’enduro. Nel 2015 ricordo un’intervista del campione Giovanni Sala, che disse a mio padre: «Sai Manera, anche l’enduro è diventato meno duro. Deve invece rimanere una specialità fatta di mulattiere, fango e volontà e se non ce la fai devi spingere per andare avanti. È uno sport per pochi».

C’è comunque l’esigenza di rendere questo sport e le evoluzioni dei campioni più vicine al pubblico. L’unica certezza è che il prossimo 21 giugno la Valli mondiale prenderà di nuovo il via. La 43esima edizione prevede un percorso che verrà ripetuto più volte in diverse prove: una “Extreme”, un “Enduro test” e un “Cross test” in località ad oggi ancora segrete. Le classi previste sono le stesse del programma mondiale: EGp, E1, E2, E3, Junior e Youth. Come deciso dalla FIM, a Ginevra, la novità è il “Trofeo del Centenario”, una gara a carattere nazionale, abbinata al Mondiale, con iscrizioni a numero limitato in base al ranking più basso dei conduttori. «Sarà una vera e propria gara – conferma Giuliano Piccinini, attuale Presidente del MC Bergamo – con classifica finale».
Il prologo del venerdì sera si svolgerà nell’ambito del Motor Party, organizzato in località La Spessa di Clusone dal Moto Club 80.

Scopri l’edizione 2019 del Motor Party a Clusone

 Sarà accompagnato da una sorta di “sfilata delle vecchie glorie”, per tributare un dovuto omaggio alla grande tradizione seriana in questo sport. A raccogliere la sfida iridata per i colori italiani saranno i vari Thomas Oldrati, Rudy Moroni, Giacomo Redondi, Davide Guarneri, Alex Salvini e Matteo Cavallo. Con loro, stiamone certi, anche gli appassionati di ieri e di oggi della nostra Valle.

Per maggiori info: www.motoclub.bergamo.it

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Il nido del Falco https://www.valseriana.eu/blog/il-nido-del-falco/ Sat, 08 Jun 2019 12:21:00 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=36071 Il Falco è invecchiato.
«È vero, un po’ sì. Però lo spirito c’è sempre, quello non si rassegna mai.
Adesso sono solo più tranquillo. Anche se quando c’è da tirare e andare forte con la bici non mi tiro indietro. Resto un competitivo».

Paolo Savoldelli è sempre lui. È rimasto a Rovetta, dove è nato e cresciuto, diventato grande e poi campione, ed è rimasto lì anche quando è diventato uno dei big del ciclismo italiano.
«Mi sono dovuto spostare parecchio quando correvo in bici, per gli allenamenti e naturalmente per le gare. Ma sinceramente non ho mai pensato di cambiare città o territorio, non ho mai pensato di trasferirmi da un’altra parte, qui ci sono le montagne e il lago, le strade e la natura, non manca niente, è un posto tranquillo e si vive bene».

Prima la vita di Paolo era una trottola, i mesi delle corse a tappe li passava di qua e di là. Adesso che fa l’imprenditore riesce a vivere tutto con più naturalezza, con più calma. Con due soci ha messo su un’impresa edile: compra terreni, ci costruisce case.
«Uno che ha fatto unicamente ciclismo o in generale sport per una vita è normale che sia un po’ indietro, la gente che ha fatto altre attività è avanti di almeno quindici anni. Io però ho sempre avuto la passione delle costruzioni e un piede nel mondo dell’immobiliare. Non è più come dieci, quindici anni fa».

Il mondo è cambiato, non è invecchiato solo il Falco “Saoldèl”.
A 47 anni Savoldelli, professionista dal ’98 al 2008, vincitore di due Giri d’Italia, è però ancora l’uomo genuino che in discesa sembrava non avere mai paura. Celebri sono rimaste le sue picchiate, quelle che gli hanno fatto guadagnare secondi e in qualche caso minuti preziosi quando doveva staccare gli inseguitori e andare a vincere le tappe; le stesse picchiate che poi convinsero una giornalista a chiamarlo “il Falco”, perché aveva quella mantellina che svolazzava e la velocità lo rendeva tutte le volte bellissimo e irraggiungibile come un falco.

16-giugno-Oltressenda

«Da piccolo andavo con la bmx in ValSeriana, mi piaceva andare nei boschi con gli amici. Capitava di dover fare le discese, io ero sempre il primo ad arrivare: mi toccava aspettarli. All’inizio era solo un divertimento, poi ho capito che poteva essere una dote e un’arma da sfruttare. Ma non sono mai stato uno che corre rischi inutili. L’ho fatto solo quando è stato necessario».

Un giorno il suo papà uscì in bici con il fratello e si portò dietro anche il suo
bambino. Non darà nessun fastidio, disse allo zio di Paolo. Al ritorno il piccolo li staccò tutti e due. Savoldelli arrivava a toccare i cento all’ora, e se lo guardavi dalla tv al Giro o al Tour de France ti dovevi appiccicare al divano, tanta era la paura che ti faceva.
«Per allenarmi e migliorare partivo con la mia bicicletta e scendevo verso Lovere, cercando di fare i due tornanti prima del lago senza toccare i freni. Raggiungere certe velocità non è mai semplice e ricordo ancora che in una gara da dilettante ho visto sul mio contachilometri i 111 chilometri orari. Però penso di aver raggiunto velocità superiori».

Ora la sua vita è diversa, non scende più in picchiata. Savoldelli riesce persino a godersi l’aria, i paesaggi e il panorama.
«Del ciclismo mi manca il contesto. Non era facile, ma riuscivamo a divertirci. Amo lo sci e  l’alpinismo, eppure la fatica che mi dà la bicicletta non me la dà nulla. Era un lavoro, un mestiere stressante e pericoloso. Ora la bicicletta la vivo in un altro modo: in cima a una salita ora posso fare una sosta, adesso vado al bar a fare due chiacchiere o a mangiare».

Quelli del Falco erano gli anni dei grandi campioni bergamaschi.
«Una volta a un Tour de France eravamo al via in diciotto bergamaschi. Diciotto, hai presente? A vincere c’erano anche Gotti e Guerini. Adesso c’è Consonni, la nostra speranza è lui».

 

Il Falco, Paolo Savoldelli

Non c’è nessuno più tipico di Savoldelli, l’espressione della Valle è la sua. Uomo mite, ma pragmatico. Faticatore, fedele, gentile. Un mix di tutto il bergamasco che conoscete.
«Bergamo e i dintorni per me sono importanti. Io vivo soprattutto la parte alta, la conosco molto bene, giro tutti i posti, tutte le valli, e ho visitato parecchio. Magari mancano un po’ i collegamenti, le nostre valli dovrebbero essere collegate con le stradine come fanno in Trentino. Tutto diventerebbe più fruibile. Il tempo delle grandi opere è finito, costano tanto e sono difficili da mantenere. Se fai cose piccole e le metti insieme è meglio».

La sua compagna gestisce un la Baita Valle Azzurra, un ostello a Valzurio, che è un posto piccolo ma pieno di fascino.
«È un paesino, gli abitati sono sedici, ma è anche un posto meraviglioso per le camminate. C’è un scena che mi lascia sempre senza  fiato: lì c’è un contadino che ha una stalla e la sua mamma ogni mattina fa uscire le mucche tre alla volta, che in fila vanno alla fontana, bevono, e tornano indietro. È un altro mondo».

Quello di Savoldelli è però ancora libero da schemi. Un modo semplice, equilibrato come le nostre valli. Ci sono in più i social, che lui non frequenta quasi mai. Preferisce il suo piccolo mondo, quello che è espressione di ogni cosa.
«Sì, un posto preferito ce l’ho: una piccola frazione di Colere, Magnone si chiama, i miei genitori hanno una casa, è un posto molto bello. Tranne nel punto dove hanno casa loro, per tre mesi l’anno il sole non arriva. Resta all’ombra. Tutti lo aspettano, fanno la conta dei giorni. E poi, quando finalmente arriva, quando spunta per la prima volta, è una festa».

Articolo di Giorgio Burreddu per VALSeriana & Scalve Magazine

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IVS GROUP e la pausa di qualità https://www.valseriana.eu/blog/ivs-group-e-la-pausa-di-qualita/ Tue, 19 Feb 2019 11:40:05 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=33787 Sig.Gualdi, potrebbe elencarci le principali tappe che hanno contribuito al successo dell’azienda?
Il gruppo IVS nasce negli anni Settanta grazie all’idea di giovani imprenditori che mettendosi in gioco scelgono di esplorare nuove strade nel business della Distribuzione Automatica. Le origini sono legate all’imprenditorietà del fondatore Cesare Cerea che nel 1971 ha iniziato a gestire la filiera del food con la Cerea Distributori Automatici Srl per poi fondare un anno dopo, insieme a Pietro Gualdi e Angelo Bonacina, la Bergamo Distributori, già nel 1972 società pioniera del settore vending in Italia.
Dal 1971 ai giorni nostri tanti sono stati i traguardi raggiunti anche a livello internazionale tramite fusioni e acquisizioni di diverse società che hanno dato vita al gruppo IVS fino alla quotazione in borsa e la recente acquisizione di Moneynet.

Negli ultimi anni la pausa caffè è diventata sempre più social; sono tanti i momenti e le novità che condividete sul sito yourbestbreak.com. Nel settore del vending in cosa vi differenziate?
Grazie a 185.000 distributori godiamo di una forte presenza capillare sul territorio attraverso la quale portiamo avanti i principali punti della nostra mission: attenzione al consumatore, innovazione tecnologica e attenzione per l’impatto ambientale. Tutti i nostri distributori automatici sono monitorati tramite sofisticati sistemi di controllo telemetrico, che si traducono in una Sala Regia dedicata a manutenzione e rifornimento. Questo ci permette di essere costantemente aggiornati sui bisogni dei nostri clienti e di intervenire ovunque ce ne sia bisogno.

É importante per noi poter dialogare sempre di più con la nostra community e garantire delle risposte immediate. Anche attraverso il nostro angolo social yourbestbreak.com offriamo continua assistenza ai nostri clienti e con l’applicazione per smartphone Coffee cApp abbiamo reso possibile l’acquisto dei prodotti dei distributori con un semplice clic. L’innovazione tecnologia è alla base del nostro motore e l’acquisizione di Moneynet in quest’ottica è stata di certo un traguardo importante. Se difatti ieri la nostra App ci permetteva di acquistare dai distributori automatici, domani avremo nuove possibilità di vendita come pagamento dei bollettini postali, abbonamenti o carte prepagate. Tutto ciò che oggi viene effettuato insomma attraverso un’azienda di servizi bancari: virtualizzare un credito e con questo pagare certi servizi.

Sappiamo prenderci cura delle esigenze del cliente promuovendo un progetto di alimentazione consapevole associando il vending a prodotti salutari. Ciò si traduce nell’installazione all’interno di distributori di “cassetti verdi” che a differenza dei classici settori neri sono un indicatore di un cibo “no junk food”. In altri casi, in base a specifiche richieste del clienti introduciamo oltre ai cassetti verdi, degli appositi segnalatori per prodotti vegan o glutenfree. Ovviamente prima di inserire un prodotto “naturale” bisogna confrontarsi con l’offerta di mercato, ma noi come azienda cerchiamo di sostenere sempre più delle scelte consapevoli ed eticamente corrette.

In relazione al territorio della ValSeriana, esiste per Lei “the best” location dove poter rilassarsi “far pausa” la domenica? Aziende e territorio – è questo un connubio possibile?
Originario della ValSeriana, sono molti i luoghi ai quali sono particolarmente affezionato. Sicuramente non posso non citare luoghi di cultura come Clusone o Gandino ma anche Selvino. La Presolana, Monte Pora, Farno… sono i luoghi del mio passato.

Un connubio pausa-territorio che associo anche al progetto della pista ciclabile, un investimento a beneficio di tutti. Credo difatti che la valle non possa sopravvivere senza investire sulle infrastrutture, sulla mobilità e offrire quindi servizi. Facendo un parallelismo con il nostro lavoro, è quello che anche noi di IVS facciamo ogni giorno: noi offriamo un servizio e “il servizio” è ciò di cui la valle ha bisogno per invitare le persone a venire da noi e non piuttosto da altre parti che magari hanno capito come vendersi.

L’infrastruttura in sé ha una doppia valenza perché se da un punto di vista serve ad accogliere, da un altro serve ad andare a vendere. E’ solo grazie ad un tipo di infrastruttura che si riesce a vendere una certa esperienza avendo un palcoscenico più grande. Non ho dubbi che il tema mobilità sia un tema complesso. Il collegamento TEB Bergamo-Albino è stato un investimento importante, sarebbe auspicabile poter portare avanti un progetto completo affinchè si possano raggiungere anche gli altri comuni della ValSeriana. Abbiamo la fortuna di aver qui vicino un grande aereoporto, sarebbe importante offrire una rete collegata per poter vendere bene il nostro territorio e le nostre eccellenze. Bisogna riflettere su azioni e investimenti con cognizione di causa, che possano portare dei benefici soprattutto per il medio-lungo termine, attraverso la sinergia di più attori e non demandata ai singoli imprenditori.

Il Presidente della IVS Group Cesare Cerea, è stato un grande imprenditore…
Il compianto e storico Presidente del Gruppo, Cesare Cerea, era una persona molto intraprendente. Presente in azienda, amava stare con le persone e spronare il nostro gruppo. É stato un uomo di tanta vitalità e spirito imprenditoriale riuscendo a dare il via a nuovi modelli di distributori automatici e iniziative commerciali che hanno generato nuovi business in nicchie di mercato fino ad allora inesplorate e fondato le basi del gruppo di oggi. A questo saremo sempre riconoscenti.

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I Bertù: la pasta ripiena dalla storia antica https://www.valseriana.eu/blog/i-bertu-la-pasta-ripiena-dalla-storia-antica/ Tue, 08 Jan 2019 08:35:31 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=32621 Se entriamo nello specifico delle singole zone, la ValSeriana è rinomata per i suoi Scarpinocc, una pasta ripiena a base di formaggio, senza l’utilizzo di carne, originari del comune di Parre (Bg).

Nessuno si aspettava novità in questo campo, ma quando qualche anno fa arriva una chiamata alla locale associazione di promozione turistica; era uno chef di Atlanta, un tale Mike Patrick. Voleva informazioni riguardo una pasta fresca ripiena di cui aveva letto nell’ “Encyclopedia of pasta” di Oretta Zanini De Vita (University Press California – 2009).

Erano i Bertù ed ecco che subito si accende l’interesse nei confronti di questa pasta ripiena; iniziano quindi lunghe ricerche bibliografiche e chiacchierate con gli anziani locali che, nel tempo, confermano l’esistenza di questa pasta: è così che i Bertù rinascono, in maniera del tutto inusuale e con l’intenzione di rimanere patrimonio della memoria collettiva ancora per molto tempo.

Degusta questi squisiti ravioli ripieni alla Sagra dei bertù e dei Capù di Rovetta

Ma la vera fortuna di questa produzione è l’aver incontrato la curiosità e l’interesse dello chef Matteo Teli che si è dedicato al progetto di recupero della ricetta e della loro messa in produzione.

La loro origine sembra derivare dalla frazione San Lorenzo di Rovetta (Bg), un tempo zona in cui vivevano molte famiglie di pastori.

Il nome deriva dal fatto – Racconta Matteo Teli – che la loro grande dimensione aveva indotto i pastori a chiamarli Bertù, probabilmente con derivazione dal termine berta, cioè “orecchio” in dialetto gaì, parlata conosciuta esclusivamente appunto dai pastori. Di conseguenza si suppone che il termine Bertù sia riconducibile al significato di “orecchio grande”, simile a quello dell’asino”.

Dopo numerose prove, tentativi e assaggi, ecco che la ricetta viene perfezionata e ormai i Bertù di San Lorenzo vengono prodotti nel laboratorio Tradizioni e Delizie a Onore (Bg) da Matteo Teli in persona.

Per la sfoglia – dice Matteo – viene utilizzata una farina integrale sporcata con un poco di crusca. Si utilizzano le uova, ma in maniera molto limitata. Il ripieno invece ha come ingrediente principale il cotechino sgrassato unito poi al formaggio da grattugia, al pane grattato, al prezzemolo, ad un poco di cipolla tritata, sale e un pizzico di noce moscata”.

Nel piccolo spaccio del laboratorio è possibile acquistare anche altri prodotti ideati dallo chef: dai Tosèi, l’alternativa ai Bertù con il ripieno a base di formaggio (senza carne), gli gnocchi di patate e polenta di Mais Rostrato rosso e molte altre paste. Tra i dolci locali, da menzionare la Smaiasa di Cerete, a base di mele, noci e uvetta, ma anche la torta Rostratella di Rovetta, prodotta come è facile capire dal nome a partire dal Mais Rostrato rosso unito alle nocciole e alla confettura di more. E ancora, tra i biscotti i Brutti di mais e i Lingotti di mais, per una merenda o una pausa ricca di nutrimento e di energia.

Foto Matteo Zanardi
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L’apicoltura di montagna: in alta ValSeriana, una storia davvero golosa https://www.valseriana.eu/blog/lapicoltura-di-montagna-in-alta-valseriana-una-storia-davvero-golosa/ Thu, 03 Jan 2019 17:35:58 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=32619 Tra questi boschi, in una bellissima e isolata zona del territorio comunale, è ubicata l’azienda agricola Ronchello che nasce ufficialmente nel 2010, “ma era da quasi 25 anni che avevamo le api a Gandellino” racconta Andrea Risi, apicoltore e architetto di origine milanese che con i genitori si è trasferito in valle ormai molti anni fa.

Nonostante siamo a circa 850 metri sul livello del mare – racconta Risi – disponiamo di un microclima caratteristico dei 1000 m.s.l.m quindi la nostra è una vera e propria apicoltura di montagna. Questo ci obbliga a praticare il nomadismo. Inoltre il freddo è un problema per l’invernamento delle api, infatti l’inverno è più lungo e le famiglie si sviluppano più lentamente”.

Ma i limiti diventano spesso una sfida e nonostante ci siano molte difficoltà, questo rappresenta un territorio sano per le api: mancano infatti le produzioni agricole intensive e di conseguenza non vi sono pericoli per l’uso massiccio di prodotti fitosanitari.

In alta valle viene prodotto esclusivamente un miele millefiori e, per variare la tipologia di mieli, Andrea Risi sposta le sue arnie in base ai tempi di fioritura delle varie specie: “idealmente seguiamo i fiumi, infatti dalla ValSeriana scendiamo lungo il fiume Serio, mentre le api che abbiamo in Valle Camonica, le spostiamo lungo il fiume Oglio”.

Ecco quindi che l’azienda produce diverse tipologie di miele: dal tarassaco al castagno, fino alla robinia, il tiglio e il millefiori primaverile.


Andrea Risi è una persona molto creativa e curiosa, per questo motivo in poco tempo ha dato vita ad altre tre specialità a base di miele: Aromel 5, Enermel e Nocciolmel. Aromel 5 è un miele balsamico nato dopo un percorso di sperimentazione e assaggio lungo un anno. Si tratta di un miele di melata con aggiunta di oli essenziali (eucalipto, menta, pino e timo), propoli echinacea, rosa canina e aromi naturali; ideale per chi soffre di problemi bronchiali e per chi pratica attività sportiva. Il secondo invece, Enermel, è una miscela a base di miele di melata, polline, pappa reale e propoli. Infine, un prodotto per i veri golosi: Nocciolmel, preparato al 70% con miele di robinia e la restante parte con crema di nocciole gentili del Piemonte. Un prodotto per cui perdere la testa!

Per questo 2018 il miele di castagno dell’azienda agricola Ronchello è stato premiato con Una goccia d’oro al concorso Grandi Mieli d’Italia 2018Premio Giulio Piana. Un riconoscimento importante che premia soprattutto la dedizione di Andrea Risi che si sta sempre più dedicando al mondo del miele. Il nuovo laboratorio di estrazione e lavorazione del miele, unito al paziente sviluppo di prodotti interessanti e innovativi, sono una vera testimonianza del suo costante impegno.

Foto Matteo Zanardi
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La Val di Scalve: tra pascoli e formaggi di “una volta” https://www.valseriana.eu/blog/la-val-di-scalve-tra-pascoli-e-formaggi-di-una-volta/ Thu, 03 Jan 2019 16:21:35 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=32622 Percorrendo una stretta strada a strapiombo sul letto del torrente, si arriva ai maggiori centri della zona: Vilminore di Scalve, con tutte le sue frazioni e Schilpario, piccolo centro e molto conosciuto per le attività di svago legate alla montagna.

Proprio a Vilmaggiore, frazione di Vilminore di Scalve, è ubicata la Latteria Sociale Montana di Scalve, una cooperativa di allevatori che quotidianamente lavora il latte proveniente da 16 conferenti locali per la produzione di diverse tipologie di formaggio appartenenti alla tradizione.

Nel caseificio con annesso spaccio, vengono lavorati giornalmente oltre 50 quintali di latte dal casaro Lorenzo Bruschi, da due anni direttore della cooperativa. Una vera e propria scelta di vita la sua, che lo ha visto abbandonare la città e stabilirsi in queste montagne. Lorenzo è infatti originario di Sesto San Giovanni ed è un perito agrario laureato in benessere animale. “Da piccolo – racconta – avevo a casa a Parre e d’estate salivo a fare l’alpeggiatore. Ero talmente innamorato di questa zona che ho fatto la mia tesi di laurea sulla formaggella ValSeriana. Successivamente ho iniziato a lavorare alla Latteria della Val di Scalve e due anni fa c’era bisogno di una persona che ci si buttasse dentro in maniera importante: dopo 10 anni di lavoro qui ho sostituito Luciano Bettoni alla guida della cooperativa”.

Sono molte e diverse le tipologie di formaggio prodotte, tutte a partire da latte crudo non pastorizzato. Questo preserva tutte le qualità nutritive e i microrganismi naturalmente presenti nel latte, anche se questo talvolta potrebbe creare difficoltà nella sua lavorazione e trasformazione in formaggio, proprio a causa de fatto che il latte è materia viva e se utilizzato senza pastorizzazione è in grado di regalare prodotti unici, ma molto delicati e da trattare con cura.

Tra le varie tipologie casearie prodotte, la regina è proprio lei: la formaggella Val di Scalve, prodotta nei formati da 1,4 kg e da 700 g (chiamata Scalvinella). E’ prodotta a latte intero e non pastorizzato; la cagliata viene semi-cotta. Esiste nella versione da stalla e da alpeggio, cioè utilizzando il latte estivo prodotto da animali al pascolo. Quest’ultima ha vinto la medaglia d’argento alle Olimpiadi del formaggio di Bergen.

Da citare poi lo stracchino del Gleno, che deve il suo nome alla diga protagonista della tragedia del 1 dicembre 1923, in cui la stessa crollò portandosi dietro morti e distruzione. Proprio nei pascoli vicini si dice che venisse prodotto uno stracchino magro perché prodotto da latte parzialmente scremato. Anche oggi viene prodotto a partire da latte crudo parzialmente scremato. La pasta è cruda e viene lasciato a maturare al massimo per 20 giorni.

Infine, ma non per importanza, il Quadrel, imponente per dimensione, è il tipico formaggio da piastra. E’ prodotto con latte crudo parzialmente scremato e la cagliata, dopo essere stata rotta alla dimensione cosiddetta a chicco di mais, viene riscaldata ulteriormente; è infatti una pasta semi-cotta e la sua forma è rettangolare dal peso di circa 8-11 kg. Questo formaggio viene infine stagionato per almeno due mesi.

Una zona questa, in cui l’allevamento è molto presente e i pascoli riescono a regalare aromi unici facilmente percepibili nei formaggi locali, soprattutto se prodotti a latte crudo e con la sapienza di un buon casaro come Lorenzo.

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Quando un prodotto “povero” diventa una vera risorsa: il Mais spinato di Gandino https://www.valseriana.eu/blog/quando-un-prodotto-povero-diventa-una-vera-risorsa-il-mais-spinato-di-gandino/ Thu, 03 Jan 2019 15:57:14 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=32617 Infatti credere fortemente in un progetto o in un prodotto necessita poi di tante piccole e grandi azioni dettate da emozioni, intraprendenza e coraggio, che costruiscono e fanno crescere quello che era solo un’idea o un’intuizione.

A Gandino e dintorni è successo proprio questo e, grazie a un piccolo gruppo di persone dedite al proprio territorio, con la consapevolezza che vi era la necessità di fare qualcosa che trainasse e fosse da stimolo alla promozione locale, è nato il progetto di recupero e successiva valorizzazione legato al mondo del Mais Spinato di Gandino. Una varietà autoctona caratterizzata dall’avere un chicco di colore giallo e dalla forma appuntita.

A Gandino c’è stata la ferma volontà di fare bene, grazie anche a persone come Emanuel Caleca, gestore dal 2006 del Ristorante Centrale, che ha voluto dare un forte impulso al mais e a tutti i prodotti derivati, impegnando e indirizzando anche quella che è la sua attività commerciale in questa direzione.

Nasce così il marchio “La Spinata” che ormai caratterizza il ristorante ubicato in piazza a Gandino, ma anche un altro punto vendita ad Albino. In questi luoghi è possibile assaggiare diverse tipologie di piatti a base di mais spinato di Gandino, ma anche acquistare i prodotti preparati a partire da questa materia prima.

Da quando è nata l’idea del progetto legato al mais spinato – racconta Caleca – ho deciso con la mia attività di dedicarmi solo a quello, vista anche la presenta degli indispensabili volontari, che si sono rivelati fondamentali per la buona riuscita di tutte le attività portate a termine”.

Sono molti i prodotti reperibili a La Spinata e preparati nel laboratorio in loco. Da assaggiare, appunto, la Spinata: una sorta di pizza spianata in cui si fondono per l’impasto alcune dosi di farina integrale e di farina di Mais Spinato.

Poi, sempre tra i prodotti da forno, il Frollino Centralino, un biscotto prodotto con l’utilizzo della farina di Mais Spinato coltivato da agricoltori locali. Un biscotto leggero, a base di frolla. Croccante e dolce al punto giusto, per un goloso spuntino o una perfetta merenda. E poi ancora, le Chiacchiere salate, il prodotto perfetto da gustare con i salumi per un gustoso antipasto o aperitivo. Infine, La Scarlatta, la birra nata dalla passione di Roberto, figlio di Emanuel Caleca, disponibile in due versioni: rossa e bionda. Una ricetta segreta sempre a base di Mais Spinato di Gandino. Oltre alle due tipologie elencate, Roberto produce anche una birra weiss preparata a partire dai 3 mais autoctoni bergamaschi: lo Spinato di Gandino, il Rostrato rosso di Rovetta e il Nostrano dell’Isola.

Da assaggiare ancora a La Spinata, il gelato Melgotto, prodotto dal gelataio leffese Sergio Pezzoli, che servito con il Frollino Centralino regala dolcezza e aromi unici.

Da ciò che poteva essere alla prima impressione un prodotto semplice e senza futuro è nata una filiera di prodotti di qualità, figli di una tradizione che si è ridotta a cenere, ma è ancora fuoco vivo.

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Formaggi, salumi e birra: produzioni di montagna che scaldano il cuore https://www.valseriana.eu/blog/formaggi-salumi-e-birra-produzioni-di-montagna-che-scaldano-il-cuore/ Wed, 02 Jan 2019 18:00:29 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=32620 Ecco che la multifunzionalità agricola diventa essenziale, un po’ come le cascine di un tempo: si produceva un po’ di tutto per rispondere alle diverse necessità alimentari. Una questione di sopravvivenza, ma che richiede notevole impegno al fine di gestire al meglio tutti i processi di produzione, lavorazione, trasformazione e vendita.

La scelta di Marco Delbono è stata proprio questa e racconta: “ho lavorato per un po’ di anni in Germania e nel 2000 sono tornato a casa. Nel 2002 ho iniziato a pensare all’azienda e nel 2005 ho dato vita a un allevamento di capre ad Ardesio. Ma non era sostenibile, dovevamo vendere la produzione a prezzi troppo bassi ai commercianti, per questo motivo nel 2009 con mio fratello abbiamo acquistato bovini e suini e iniziato a pensare ad un progetto più grosso e che stesse in piedi”. Di conseguenza, oltre alla stalla, in azienda sono presenti il caseificio, dove viene trasformato il latte caprino e vaccino, e il laboratorio per la lavorazione delle carni e la loro trasformazione in salumi.

Formaggio di latte vaccino
Formaggio di latte vaccino
Formaggi con latte caprino
Formaggi con latte caprino

Tra i formaggi prodotti, fanno da padrone formaggelle e stracchini prodotte sia con latte vaccino che caprino. Poi ci sono anche forme stagionate in grotta, ubicata vicino all’azienda. Per quanto riguarda i prodotti a base di latte caprino, particolari sono l’erborinato e le piramidi al naturale oppure affinate con il carbone vegetale.

Quanto ai salumi, non poteva mancare il salame bergamasco, prodotto utilizzando anche le parti nobili del maiale, come tradizione vuole, ma anche coppe, pancette, cacciatori. Vengono trasformate anche le carni bovine per la produzione di bresaole, carne salata e salame di manzo. Infine, con la carne di capra si producono alcuni golosi insaccati.

Salumi
Salumi

Ma non è finita qui. Nel 2013 l’idea di iniziare a coltivare i cereali che hanno portato alla produzione della farina di frumento e di segale, per farne poi i prodotti da forno, e dell’orzo che ha dato impulso nel 2017 alla nascita della nostra birra agricola. Nasce quindi il birrificio Asta, con la produzione della prima birra agricola della ValSeriana nelle tipologie bionda (Valcanale), rossa (Montesecco), Weiss (Cacciamali), gluten free (Valzella).

Birra Agricola Asta
Birra Agricola Asta

Nel frattempo, correva l’anno 2015, Marco e il fratello hanno dato vita al negozio (sempre ad Ardesio) dove vendono i loro prodotti e alla produzione di gelato, sempre a partire dal latte prodotto in azienda. In particolare il fior di capra e il gelato al mais sono tra i gusti più curiosi e da assaggiare.

Una proposta davvero ampia che permette di assaggiare l’alta ValSeriana in un colpo solo.

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Le gallette di Mais del Clemente, una storia di passione https://www.valseriana.eu/blog/le-gallette-di-mais-del-clemente-una-storia-di-passione/ Wed, 02 Jan 2019 16:23:48 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=32618 Ho sempre avuto il pallino per la coltivazione del mais, – spiega Clemente Savoldelli, piccolo impresario edile e coltivatore di Mais Spinato di Gandinoma mio padre non ha mai voluto che iniziassi a dedicarmici perché avevamo sempre molto lavoro grazie all’attività di famiglia. Oggi proseguo con l’attività, ma nel tempo libero mi piace coltivare questa mia grande passione”.

©matteozanardi
©matteozanardi

I terreni vengono gestiti applicando la rotazione delle colture, al fine di tutelare la fertilità e la struttura dei suoli, per garantirne massima sostenibilità nel tempo. L’azienda agricola di Clemente coltiva in tutto circa 3 ettari di terreno a Mais Spinato di Gandino, segale, grano saraceno ed erba medica, quest’ultima una leguminosa che, durante la sua coltivazione, contribuisce in maniera sostanziale alla fissazione di una componente nutritiva molto importante per la crescita e lo sviluppo delle piante: l’azoto.

©matteozanardi
©matteozanardi

I prodotti della natura, una volta raccolti e fatti essiccare, sono moliti direttamente in azienda. “In passato mi rivolgevo al mulino di Cerete, – racconta Clemente – poi ho acquistato il mio mulino in legno in Austria. E’ stata una vera fortuna. Un mulino a pietra che viene regolato tutto a mano”. Dispone di 3 setacci che permette di suddividere la farina in fumetto, bramata e fioretto, in base agli utilizzi per cui verrà poi impiegata.

©matteozanardi
©matteozanardi

Le farine provenienti dalle diverse varietà di mais possono poi essere miscelate per ottenere prodotti unici per i diversi utilizzi. Quindi farine da impastare per preparare prodotti da forno oppure farine per polenta. Il mais tal quale viene anche impiegato per la produzione delle buonissime e croccantissime gallette: lo snack ideale in tutti i momenti della giornata.

Ho scoperto circa dieci anni fa l’esistenza di questo Mais, – racconta Clemente – allora sono andato alla Cascina Ca’ Parecia e ho chiesto di averne un po’ da coltivare. Avevano trovato una pannocchia vecchia oltre 20 anni e, dopo gli studi sulla varietà, abbiamo iniziato a coltivarlo. Ormai è dal 2009 che mi dedico, insieme agli altri agricoltori e volontari, a questo progetto. Negli ultimi anni ho iniziato a sperimentare anche con altre cultivar autoctone”.

©matteozanardi
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Ormai i prodotti proposti sono molti: dalle Spinette, piccole gallette a base di solo mais, alle tradizionali gallette a base di Mais Spinato e poi miscelate con riso, farro oppure con altre varietà autoctone come il Mais Rostrato rosso di Rovetta o il Nostrano dell’Isola. Infine le farine: da quella di grano saraceno, a quella di frumento tenero, fino al fioretto di mais per la produzione di prodotti da forno. La scelta è notevole anche per le farine per polenta: diverse miscele per ogni gusto.

Clemente Savoldelli è un vero sperimentatore nella coltivazione delle varietà autoctone, le sorprese sono assicurate!

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Abitare Baleri, design e stile nel cuore della ValSeriana https://www.valseriana.eu/blog/abitare-baleri-design-e-stile-nel-cuore-della-valseriana/ Mon, 17 Dec 2018 16:04:22 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=32450 Non è un caso che il GIA, prestigioso premio conferito al miglior negozio di retail a livello internazionale, sia finito proprio fra le mura di questa azienda, da anni associata a PromoSerio.
Ferdi Baleri, da molti anni “signore” di questo tempio, ci parla orgoglioso del premio appena ricevuto e che lo porterà a Chicago con il sogno di conquistare anche la giuria d’oltreoceano.
Cominciamo a parlare con lui ed è immediato capire che il riconoscimento che ora si sta godendo, altro non è che il frutto di una lunga esperienza vissuta sul campo: formazione, incontri, viaggi e continua voglia di approfondire e andare oltre il conosciuto.

Ha uno showroom di quattro piani nel cuore della ValSeriana. Da dove è partito?
Una fragranza al truciolo di legno permea tutta la mia storia; mio padre aveva un negozio di arredamento, una piccola bottega. Sono cresciuto a contattato con questo ambiente e me ne sono innamorato. Ho frequentato studi di design ma in Italia, negli anni Sessanta era ancora difficile trovare istituti e università che permettessero una formazione di qualità. Allora sono partito per la Germania. A Monaco di Baviera ho studiato prima ingegneria del legno e poi ho proseguito con una specializzazione in design d’interni. Contemporaneamente ho iniziato a lavorare in uno studio di architettura; sono stati per me anni davvero ricchi di spunti creativi: ho avuto l’opportunità di entrare in contatto con molti personaggi importanti, maestri che mi hanno appassionato e che mi hanno insegnato parecchio. Monaco, allora come oggi, era il regno dell’arte e del design, ovunque si respirava bellezza e buon gusto. È li che ho iniziato a sentire il bisogno di non essere un semplice commerciante di mobili, volevo andare oltre, suggerire una filosofia di vita prima che vendere una sedia o un tavolo.

Poi è tornato in Italia… come ha realizzato queste sue aspirazioni?
Si, sono tornato ad Albino, la sensibilità nei confronti del design non era cambiata anzi. Fortunatamente mio padre si era spostato qui dove siamo ora e in questo grande negozio ho iniziato a costruire il mio sogno. Da Monaco ho portato a casa prima di tutto l’amore per l’arte. In parallelo alla mia formazione ho iniziato ad appassionarmi di arte, principalmente contemporanea, ho sviluppato quell’occhio estetico che permette a un buon arredatore di fare delle scelte di gusto. Ho cominciato a comprare opere d’arte per arredare casa mia, da li a diventare un collezionista è stato un attimo. In tutti i settori dello showroom ci sono opere d’arte di grandi artisti italiani e internazionali, sono tutte mie opere.

In effetti girando fra le diverse aree espositive, sembra quasi di essere in un museo… Un posto elitario?
Assolutamente no. Non ho mai avuto l’obiettivo di creare un tempio per ricchi. Non si può negare che molti dei pezzi di design in vendita sono di altissima qualità e rispondono alle esigenze di un mercato esclusivo, ma cerchiamo sempre di offrire un’alternativa che possa soddisfare tutte le “tasche”. Ad esempio, abbiamo bicchieri che costano 1 euro e altri da 100. Questo non vuol dire omologarsi al mercato ormai standardizzato ma piuttosto volere aprirsi a tutti. Mi piacerebbe che il nostro negozio fosse percepito come un luogo da visitare… Invito i giovani a venire qui, non per comprare, semmai per osservare, per vedere come si può arredare casa con buon gusto e semplicità. Gli ambienti che proponiamo mi piacerebbe diventassero ispirazione per accostamenti da riproporre nelle proprie case. Ho cercato di creare uno showroom che sia anche spazio di conoscenza e di approfondimento. Vicino ai pezzi più importanti, sedie, poltrone, armadi, soprammobili di grandi personalità del design italiano ho posizionato libri che ne raccontino la storia. Ospito spesso classi universitarie di Milano o gruppi di giapponesi che vengono qui per fare fotografie allo spazio. Ci tengo che non sia percepito come un negozio impersonale, non voglio che si esca pensando di aver visto un’esposizione di mobili ma ci terrei che rimanesse l’idea di un luogo carico di vissuto, di storia, di ricerca.

Oggetti Naturali della ValSeriana

Forse sta proprio in questa vostra cifra caratteristica la ragione del Premio GIA che da poco vi è stato riconosciuto? Ci racconti un po’ come è andata…
È stato un regalo piovuto dal cielo. Il GIA è un importante premio che viene riconosciuto ogni anno al migliore negozio di retail. Si tratta di un premio internazionale che è stato fondato venti anni fa a Chicago. Da venti negozi del panorama nazionale ne viene premiato uno solo. Un amico mi chiama e mi invita a partecipare alla serata di premiazione. Ero a Milano per altre questioni e incuriosito ci sono andato. Mi sono detto, vediamo cosa hanno questi venti negozi in più di me, quale è la loro offerta. C’è sempre da imparare dai concorrenti. Iniziano a elencare i nomi dei negozi… arrivati al diciannovesimo un momento di suspence… prima di annunciare il vincitore. Quando hanno pronunciato “Abitare Baleri” la gioia mista a incredulità è stata grandissima. Eravamo stupefatti; la giuria è composta da ricercatori e personalità importanti: professori del Politecnico di Milano, i più importanti architetti lombardi ed economisti della Bocconi. La cosa forse più curiosa è che per un anno siamo stati sotto l’occhio attento dei selezionatori e non lo sapevamo nemmeno: ci hanno visitato più volte in borghese per fare le loro analisi, per chiedere ai clienti pareri e valutarne il grado di soddisfazione. Hanno anche fatto un sondaggio nella provincia di Bergamo e il nostro nome è spiccato su altri. Il ricordo più bello è stato invece il riconoscimento da parte degli altri concorrenti: solo molti complimenti e grande consenso con la scelta della giuria. Ora ci aspetta un’altra tappa importante: andremo a Chicago per la premiazione del migliore negozio a livello internazionale. Sarà una bella sfida concorrere con gli americani. Ci aspetta una serata di gala, dovrò tirare fuori lo smoking per la serata, anche se mi piacerebbe presentarmi in vero stile americano, con gilet, camicia a quadrettoni e cappello da cowboy.

Un premio che porta nel mondo un’eccellenza della ValSeriana. Come vive il rapporto con il territorio?
Si, diciamo che con questo premio faccio un po’ il processo inverso di quello che sta alla base della nostra filosofia. Per scegliere i miei oggetti, da gennaio parto e giro i centri di design più d’avanguardia, Olanda e la Germania in primis. Mi piace andare a scovare i giovani talenti, bussare alle loro porte, dimostrare che sono interessato alle loro creazioni. Poi porto tutto in ValSeriana, perché ci tengo che la gente abbia la possibilità di vedere qui le migliori proposte di respiro internazionale. Nonostante il mio sforzo, ammetto, sento ancora una certa indifferenza nei confronti di temi estetici e il territorio non ha ancora sviluppato questo tipo di sensibilità. Certamente avere un negozio di questo tipo a Milano avrebbe un’altra risonanza.

Ma quindi ci sta dicendo che, se ne avesse la possibilità, lascerebbe la ValSeriana per la città?
No no, non fraintendetemi. Milano è la città del design, ovvio che avere un negozio di questo tipo li sarebbe interessante. Se trovassi una persona in grado di condividere al cento per cento la nostra filosofia, certo che a Milano aprirei uno showroom. Ma sono molto affezionato a questo posto, sono nato qui, ho costruito con grandi sforzi un racconto visivo basato sulla dimensione umana e sui rapporti personali a cui tengo veramente e che difficilmente sarebbe replicabile altrove. Questa è casa mia e ho dei progetti che sanno di utopia ma che sono li, magari un giorno prenderanno forma: mi piacerebbe fare qui dentro un museo della forza lavoro della ValSeriana, uno spazio rappresentativo di tutte le attività e le tradizioni che hanno caratterizzato il territorio e hanno contribuito al suo sviluppo, sarebbe un regalo che vorrei fare alla mia terra.

Ma per lei la ValSeriana è…
Ma senza esitazioni la ValSeriana è per me natura… Io amo camminare, amo andare in montagna. La natura ci parla e ci regala molte cose, dobbiamo essere capaci di coglierle e sfruttarle. Molte volte si cercano oggetti preziosi e ricercati per arredare casa, ma con un po’ di sensibilità si possono trovare incredibili fonti di ispirazione nella natura. Io lo faccio da sempre: quando vado a fare le mie passeggiate adoro raccogliere reperti naturali, colleziono centinaia di rami e radici della ValSeriana, me li porto a casa, li lavoro poco, li pulisco giusto quel che serve e li trasformo in piccole sculture, li elevo a opere d’arte. Con un piccolo e timido piedistallo il gioco è fatto.

Ha un luogo a cui tiene particolarmente?
Per rimanere coerenti con quanto detto prima, il Moshel è un logo che amo moltissimo. Ma come non menzionare anche la Presolana; quelle poche volte che sono riuscito a conquistarne la vetta è stata una soddisfazione strepitosa, una gioia indescrivibile. Sul fronte artistico invece non c’è nulla di più affascinate e commuovente in ValSeriana della Danza Macabra di Clusone. Mi lascia sempre a bocca aperta.

Dopo così tanti anni di attività, è ancora un fiume in piena e una miniera ricca di progetti. Dove trova gli stimoli?
Sicuramente la mia forza più grande sono i viaggi. Per me viaggiare significa entrare in contatto con suggestioni e stimoli che faccio miei una volta tornato a casa. Solo viaggiando e conoscendo cosa c’è al di fuori del nostro piccolo orto si può pensare di fare qualcosa di influente e importante. Così tengo allenata la mente e a volte vado anche oltre le mie possibilità.
C’è una cosa che da un po’ mi gira per la testa… Noi dovremmo avere degli oggetti che parlino della ValSeriana. Dovremmo riuscire a industrializzare con gadget semplici e funzionali la sue storia, contribuendo così non solo a diffondere il marchio territoriale e tutto quello che vi sta dietro ma anche a valorizzare il nostro saper fare, le nostre tradizioni, il nostro cibo, la nostra arte attraverso un culto di oggetti che ne siano rappresentativi.

L’idea con cui ci saluta il sig. Baleri ci piace molto, forse questo progetto sarà la prima importante collaborazione con questo impero del buon gusto nel cuore della ValSeriana.
Se non ci siete mai stati, fateci un giro e lasciatevi accompagnare dal sig. Ferdi, fatevi trasportare dalla passione che traspare ogni volta che si avvicina a un oggetto e parte per raccontarne la storia.

Scopri i dettagli sul sito di Abitare Baleri

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La viticoltura bergamasca di qualità alle pendici del Monte Misma https://www.valseriana.eu/blog/la-viticoltura-bergamasca-di-qualita-alle-pendici-del-monte-misma/ Mon, 17 Dec 2018 14:25:49 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=32022 La bassa ValSeriana confina con la vicina Val Cavallina e, enologicamente parlando, è caratterizzata da due importanti microzone: quella dove si coltiva e produce il Moscato di Scanzo DOCG e quella alle pendici del Monte Misma, facente parte delle due denominazioni più grandi, Valcalepio DOC e Terre del Colleoni DOC, ma caratterizzata da un affioramento roccioso di origine calcareo-marnosa molto particolare, ma tipico della zona in senso più esteso: il Sass de la Luna, chiamato così fin dall’800 probabilmente per il suo colore grigio-azzurro.

Proprio in queste zone è ubicata la storica azienda vitivinicola Cavalli – Faletti, oggi gestita dai fratelli Maurizio e Giorgio.

L’azienda, negli scorsi decenni, prima di diventare una vitivinicola era una classica cascina della zona, in cui vivevano e lavoravano numerose famiglie di mezzadri. Era di proprietà della famiglia Cavalli che, a un certo punto, una volta scomparsa la mezzadria, decise di dare impulso alla coltivazione della vite come si faceva un tempo e cioè senza grandi attenzioni alla tipologia della vite impiantata e alla qualità del vino prodotto.

©Matteo Zanardi

Dal 1976 al 2012 l’azienda è stata gestita da Pinuccia Faletti, mamma di Giorgio e Maurizio purtroppo scomparsa. Insieme al marito produceva vino da tavola classico rosso e poco bianco.

Oggi i fratelli Cavalli producono circa 15.000-20.000 bottiglie differenziate in ben 8 referenze: una produzione di nicchia che può ben testimoniare la storia della viticoltura di qualità bergamasca. Oltre ai 5 ettari e mezzo di vigneto nei territori attorno a Villa di Serio (Bg) e nella zona di Nese (Bg), gestiscono un piccolo appezzamento nel vicino territorio comunale di Scanzorosciate (Bg), luogo in cui producono il prezioso Moscato di Scanzo DOCG, la denominazione di origine controllata e garantita più piccola d’Italia.

L’azienda produce anche un Valcalepio DOC e relativa riserva, un Merlot Terre del Colleoni DOC e un Cabernet Terre del Colleoni DOC, entrambi vitigni utilizzati per il taglio bordolese, il mix richiesto e autorizzato dalla denominazione Valcalepio, per l’omonimo vino rosso.

Quanto ai bianchi, sono prodotti uno Chardonnay Terre del Colleoni DOC, un Incrocio Manzoni Terre del Colleoni DOC e, infine, un vino diverso, perché proveniente da un vitigno cosiddetto aromatico: il Moscato giallo vinificato a secco.

©Matteo Zanardi

E per il futuro?

Stiamo valutando di spumantizzare lo chardonnay, visto che cresce in una zona ad alta escursione termica, – racconta Maurizio – mentre nel 2017 abbiamo impiantato 1000 piante di Solaris, una delle nuove varietà in via di sperimentazione che resiste alle malattie. Quest’anno abbiamo fatto solo 3 trattamenti fitosanitari a suo carico”.

La bassa ValSeriana, come tutta la zona collinare della provincia di Bergamo, è una zona vocata alla produzione di vini rossi e non solo per il suo clima. La tradizione gastronomica locale è caratterizzata da piatti che ben si abbinano a questa tipologia: dai piatti a base di carne, fino alla polenta taragna, un’ottima occasione per abbinare i grandi vini rossi bergamaschi.

Foto Matteo Zanardi
Testi Lara Abrati
LaMa Food Specialists | lama.studio

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Quando la tradizione si trasforma in arte pasticcera: il Bescot de Éla https://www.valseriana.eu/blog/quando-la-tradizione-di-trasforma-in-arte-pasticcera-il-bescot-de-ela/ Tue, 27 Nov 2018 07:55:17 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=31773 E’ ciò che stava succedendo a questo biscotto originario di Villa di Serio, un paese ubicato alle porte della valle, vicino alla città di Bergamo, “così evocato dagli anziani del paese che mi hanno spinto ad approfondire e provare a riscoprire in chiave attuale”, racconta il pasticcere Ivan Feliciani, che con la moglie Silvia, gestisce l’omonima pasticceria del piccolo centro abitato. Una passione vera per la pasticceria quella di Ivan: “fin da piccolo, quando mi chiedevano quale lavoro volessi fare, io dicevo il cuoco oppure il pasticcere”.

Un biscotto preparato a partire da semplici ingredienti che si potevano trovare nelle cascine in cui mezzadri e contadini vivevano: le uova, la farina, l’olio d’oliva, lo zucchero e il limone (sì, perché la pianta di limone, nei cortili delle abitazioni di un tempo non mancava mai). Ecco che grazie all’ascolto dei racconti di alcune persone del paese, Ivan si mette al lavoro, unendo le indicazioni ricevute in merito a ingredienti e caratteristiche del biscotto, alle sue competenze tecniche rispetto all’arte della pasticceria.

Dopo due o tre mesi di sperimentazione, studiando e applicando conoscenze e tecniche, sono arrivato ad un risultato di cui mi ritengo molto soddisfatto: aroma e consistenza sono identici ai racconti, senza trascurare il fatto che questo biscotto è oggi un prodotto di pasticceria, le cui caratteristiche si devono alla corretta lavorazione ed emulsione degli ingredienti” racconta ancora Ivan Feliciani.

Gli ingredienti del Biscot de Ela

Oggi il biscotto è preparato con un procedimento assolutamente preciso: – racconta ancora il pasticcere – grattugio la scorza dei limoni sullo zucchero e li miscelo, al fine di fissare l’aroma del limone in assenza di materia grassa. Poi monto il tutto con le uova fresche e aggiungo infine la parte grassa rappresentata dall’olio extra vergine di oliva”.

Detto così si potrebbe pensare a un banale biscotto, ma per ottenere il vero Bescot de Éla, ormai prodotto dell’arte pasticcera di Ivan, è necessario tenere sotto controllo molte variabili, dalla temperatura dell’olio, fino a quella delle uova e, come racconta ancora Feliciani “è necessaria anche una montagna di tecnica”.

Pasticceria Feliciani
Pasticceria Feliciani

Si presenta di forma tonda, dal diametro di pochi centimetri (molto simile ai macarons francesi), dal colore giallo scarico e ricoperto da uno strato di zucchero, per regalare gioia al palato, al cuore e agli occhi.

Per uno spuntino di metà mattina o la merenda, questo è il biscotto perfetto. Friabile, ma tenero, dolce, ma leggermente acidulo, grazie alla presenza della scorza di limone. Materia grassa, farina e zucchero perfettamente bilanciati, per un biscotto che rischia di creare dipendenza perché… uno tira l’altro.

Foto Matteo Zanardi
Testi Lara Abrati
LaMa Food Specialists | lama.studio

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L’energia di una Valle https://www.valseriana.eu/blog/lenergia-di-una-valle/ Wed, 07 Nov 2018 15:57:26 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=31566 Rinnovare e innovare. Saper crescere, aprirsi al mondo. Cadere e rialzarsi con tenacia, ma soprattutto con una visione. Chi vive in Val Seriana lo ha sempre fatto. Lo ha dovuto fare, perché stare lassù, tra le montagne e un fiume che taglia in due la terra, mica è semplice. Eppure questa valle, che alterna pendii scoscesi a verdi piane, è come se avesse una forza tutta sua, un Dna specifico. Bergamasco, sì, ma ancor più testardo, ancor più grintoso.
Non stupisce scoprire, dunque, che la storia di una delle aziende più rappresentative di questa terra, cioè la Scame, sia un po’ il riflesso di tutti questi elementi. E incarni appieno lo spirito con cui la gente della Val Seriana ha sempre inteso il lavoro e l’imprenditoria.
Stefano Scainelli (foto) ha 55 anni, è un ingegnere ed è l’amministratore delegato della Scainelli Materiale Elettrico, l’azienda che (segno del destino) il padre Giovanni – morto nel luglio 2017 a 91 anni – fondò lo stesso anno della sua nascita, il 1963.

Naturalmente a Parre, il suo paese, il suo centro di gravità esistenziale. Oggi la Scame è un’azienda seriana, italiana, ma che guarda al mondo: è presente in ottanta Paesi per esportazioni, ha filiali in sedici Stati e vanta circa ottocento dipendenti complessivi, di cui quasi 280 nella sola capogruppo.
«Sì, non siamo una Pmi. Ma non siamo nemmeno una vera e propria multinazionale – spiega Stefano Scainelli, che dal 2006 è ad del gruppo -. Ed è un problema, perché così fatichiamo a partecipare sia ai bandi per le une che a quelli per le altre». Il “problema”, però, non sembra riflettersi sui risultati dell’azienda, che ha chiuso il 2017 con un fatturato consolidato che ha superato i cento milioni e che, di anno in anno, continua il suo percorso di crescita in un settore non certo semplice. «L’azienda la frequento sin da quando avevo i pantaloncini corti. A 14 anni mi facevano andare in attrezzeria. Ricordo ancora che una volta mi dimenticai la chiave del tornio nel mandrino. Quando lo avviarono, la chiave volò pericolosamente via. Il capofficina, anche se ero il figlio del padrone, non so quante me ne disse…».

Scainelli sorride mentre ricorda i primi passi nell’azienda di papà, oggi diventata la sua azienda. Che da Parre non si è mai mossa. «Qualcuno pensa che grandi attività con una forte presenza nel mondo debbano avere sedi in chissà quali posti. Non certo a Parre, lasciano intendere. Ma il segreto sta nelle idee, mica in dove è la sede». E stupisce un po’, quindi, scoprire che suo padre Giovanni, in realtà, le idee chiare in quell’ormai lontano 1963 non è che ce le avesse poi tanto: «Più che altro, papà aveva voglia di fare. Aveva uno spirito imprenditoriale innato e si sentiva soffocare dove lavorava prima, cioè un’azienda della Val del Riso del settore chimico-minerario. La cosa che lo convinse a lasciarla fu il fatto che, sebbene fosse un caporeparto, i suoi consigli su come migliorare il lavoro non venissero ascoltati dai superiori. E così si dimise. Tentarono di trattenerlo, ma ormai aveva deciso». Da buon seriano, Giovanni Scainelli voleva rinnovarsi. «Ricordava spesso quel momento. Diceva che passò un sacco di tempo con la lettera di dimissioni in mano, indeciso se imbucarla o meno e chiedendosi: “La metto o non la metto?”».

Stefano Scainelli

Rinnovarsi, ma soprattutto innovare. Sì, ma come? «Papà non si inventò niente, però capì il potenziale dei chiodini isolati per impianti elettrici e della plastica, un materiale che era in grande ascesa in quegli anni. Da perito chimico, aveva intuito la possibile forza di quel settore. Certo, furono in tanti a provarci. Ma lui era stato bravo a creare una squadra. Non si lanciò in questa nuova avventura da solo, infatti. Quando ebbe l’idea, iniziò a coinvolgere diversi amici, tutti con specializzazioni diverse. Divennero i suoi soci e ancora oggi le loro famiglie sono in azienda. Noi Scainelli abbiamo la maggioranza, ma loro sono una parte fondamentale della Scame». Quella parte che, mattone dopo mattone, ha aiutato Giovanni Scainelli a costruire una realtà forte, solida, partita da Parre e andata nel mondo.

«Del resto la gente di Parre è, storicamente, gente che gira. A fine Anni Cinquanta, qui c’erano o pastori in continuo movimento, o emigranti. Persone che, senza sapere una parola di inglese – e, a dirla tutta, nemmeno di italiano perché si parlava soltanto il bergamasco allora -, prendevano e partivano per il Sud America o l’Australia. Una cugina di mia madre, nel 1958, andò proprio là, in Australia. E suo figlio parla inglese e bergamasco antico, quello che neppure noi oggi capiamo. Pazzesco, bergamaschizza tutto, anche i verbi inglesi».

 

Rinnovare, innovare, crescere, aprirsi al mondo. Ma anche cadere, perché le cadute sono parte di un lungo cammino. «Mio padre faceva parte della prima generazione di grandi imprenditori di questa valle. Uomini coraggiosi che hanno saputo allargare i confini. Io rappresento la seconda generazione». Quella che ha beccato in pieno la grande crisi del 2008… «Noi produciamo materiale elettrico in ambito terziario e industriale, l’edilizia rappresenta ancora un pezzo importante del nostro mercato. Che però è stato duramente colpito dalla crisi. Tra il 2010 e il 2013 abbiamo preso delle belle mazzate. Per intenderci: il nostro fatturato italiano, nel 2013, era sceso da 37 milioni a 19 milioni di euro. Non sono situazioni che puoi gestire togliendo soltanto gli straordinari ai dipendenti. Fu un momento difficile». Superato soltanto perché la Scame ha avuto la forza di rialzarsi con tenacia, sfruttando una visione che, in realtà, aveva coltivato negli anni. «Ci ha salvati la nostra presenza sui mercati esteri e, soprattutto, il fatto che siamo stati in grado di diversificare l’attività».

Oggi la Scame è una delle aziende più avanzate nel settore delle automobili elettriche. Una posizione conquistata negli anni e non senza fatica. «Era il 1999, se non ricordo male – racconta Scainelli -. L’Associazione Veicolo Elettrico Italiano ci contattò e ci chiese se eravamo interessati a costruire un connettore industriale per loro. Allora non esisteva una cosa del genere. Accettammo la sfida e realizzammo il prodotto. Per alcuni anni lo tenemmo anche sul mercato, ma la richiesta era veramente bassissima. Qualche anno dopo, tra il 2006 e il 2007, le cose cambiarono. L’industria automobilistica iniziò a interessarsi all’elettrico. Il merito fu della rivoluzione nell’ambito delle batterie, conseguenza del boom informatico: per telefonini e pc servivano batterie più piccole e più performanti. Ci fu un effetto domino, che coinvolse anche l’automotive. Non in Italia però. Partecipavamo a eventi internazionali ed eravamo gli unici italiani in mezzo a tantissimi giapponesi, tedeschi, americani. E lì capimmo quanto conta il sistema rispetto alla singola azienda. Gli altri Paesi, infatti, intuita l’onda lunga che stava arrivando fecero squadra. Istituzioni, governi, aziende, grandi istituti di ricerca: tutti intorno a un tavolo per capire come sfruttare il nuovo quadro economico e, soprattutto, per delinearne lo sviluppo da lì agli anni a venire. L’Italia, invece, non lo ha mai fatto. E così noi,azienda della Val Seriana, ci siamo trovati a nuotare da soli in un mare di potenze. Nonostante questo siamo riusciti a conquistarci uno spazio e alcune delle innovazioni che abbiamo introdotto sul mercato europeo sono ancora all’avanguardia e ci permettono di ricoprire un ruolo importante».


La Scame, quindi, è come se fosse stata in grado di vivere diverse vite nella stessa
. E continua a farlo. «Il mondo industriale resta il nostro core business, ma ci siamo da un lato specializzati su settori che ci permettono di far fruttare meglio le nostro competenze, dall’altro ci siamo aperti a mercati totalmente nuovi come quello delle auto elettriche, dove inizialmente abbiamo dovuto soltanto sfruttare in modo diverso ciò che già sapevamo fare, ma poi abbiamo dovuto invece imparare da zero nuove abilità. Anche per questo abbiamo creato divisioni ad hoc per gestire le novità».

Ed è così che si torna, come fosse un cerchio della vita, all’inizio, ovvero all’importanza di sapersi rinnovare e, soprattutto, di innovare. «Innovazione di prodotto, ma anche di organizzazione e di processo. Solo con una visione coordinata d’insieme è possibile continuare a crescere».
Forse è per questa incredibile sinergia di valori e di mentalità che c’è tra la storia della Scame e la storia di chi vive da sempre la Val Seriana che l’azienda non ha mai perso il legame con la propria terra. «Secondo me – spiega Scainelli -, finché dietro una realtà c’è un azionariato familiare legato al territorio, si mantiene un legame forte. È quando la proprietà perde il legame che il territorio deve preoccuparsi. Se c’è dietro una famiglia che vive la comunità, cambia tutto. Ma il vero merito fu di mio padre. Molto di ciò che ha ottenuto con la Scame ha voluto poi “ridarlo” indietro attraverso opere come la piscina di Parre, la prima di tutta la valle praticamente».
Rinnovare e innovare. Saper crescere, aprirsi al mondo. Cadere e rialzarsi con tenacia, ma soprattutto con una visione. Questa è la Scame, questa è la Val Seriana.

Articolo di Andrea Rossetti per VALSeriana & Scalve Magazine Autunno

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Un nuovo progetto di BlueMeta, ancora delle mani a raccontarlo! https://www.valseriana.eu/blog/un-nuovo-progetto-di-bluemeta-ancora-delle-mani-a-raccontarlo/ Thu, 25 Oct 2018 07:43:36 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=31139 Incontriamo un’altra azienda associata a PromoSerio che ha scelto la sostenibilità per la ValSeriana: Blue Meta apre le porte del suo Store di Clusone dove incontriamo l’Amministratore Delegato Domenico Piazzini.

Energia dalle nostre mani significa energia pulita – spiega Piazzini – energia che  privilegia l’approvvigionamento da fonti rinnovabili, significa anche un’attenzione particolare al nostro territorio e alle persone che ci vivono, per contribuire insieme al rispetto dell’ambiente e al futuro del pianeta”.
The green Energy come “The Green Experience”, il claim che PromoSerio ha scelto per le t-shirt protagoniste del progetto di co-marketing firmato Scorpion Bay.

Non solo sostenibilità per l’azienda, ma anche vicinanza al cliente.
Dal 2011 Blue Meta fa parte del gruppo Ascopiave e, come tutte le società del Gruppo, anche Blue Meta ha una grande missione: assicurarsi la totale soddisfazione dei clienti, mantenere il massimo livello di qualità del servizio di fornitura energetica, distinguersi per la presenza sul territorio 
e la conoscenza diretta delle realtà locali in cui opera.

Chi sceglie Blue Meta come proprio fornitore di luce e gas può contare su diverse garanzie: negozi commerciali vicini a casa, una rete di vendita diretta, un call center interno e offerte sul mercato libero adatte a tutte le esigenze energetiche.
A queste si aggiungono i servizi tecnologici come lo sportello Web e l’APP che offrono ai clienti la possibilità di gestire in completa autonomia la proprie fornitura e le attività ad esse collegate.

Un servizio rapido, efficiente e vicino al territorio: questi sono i fattori che contraddistinguono l’azienda sul mercato. Blue Meta è presente in Lombardia, Piemonte e Liguria, con circa 100.000 clienti. Ma la sua vera forza sta nella presenza sul territorio: avere 12 punti di contatto nella sola provincia di Bergamo.

“La società mira a fornire un servizio utile ed efficace, dinamico e capace di soddisfare le specifiche esigenze dei diversi segmenti
 di clientela – ci racconta Piazzini – Per questo motivo, siamo costantemente orientati al miglioramento delle attività con investimenti basati su servizi innovativi e di spinta verso il futuro a beneficio della comunità. Il nostro approccio commerciale ai Clienti è basato sulla chiarezza della proposta, lontano da impossibili promesse, con offerte facilmente comprensibili che, ad esempio, distinguono i costi del gas e dell’elettricità  rispetto alle imposte e ai costi fissi. Il risultato è che il Cliente saprà esattamente cosa pagherà. Inoltre è nostra consuetudine, oltre che  guidare il cliente nella scelta della miglior tariffa, informarlo affinché sia più consapevole, anche in materia di truffe, che riguardano contratti di luce e gas. Questo è il senso della nostra politica commerciale: vicino al Cliente nella massima trasparenza.”

Resta aggiornato su tutte le offerte e i servizi di BlueMeta al sito  www.bluemeta.it

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In ValSeriana, il benessere naturale cosmetico è firmato BioKIREI! https://www.valseriana.eu/blog/in-valseriana-il-benessere-naturale-cosmetico-e-firmato-biokirei/ Fri, 20 Apr 2018 09:21:17 +0000 https://www.valseriana.eu/?post_type=blog&p=27722 Il viaggio alla scoperta del mondo Kirei inizia nella meravigliosa terra salentina, dove Tullio conosce il mondo della terapia naturale, degli oli essenziali e delle mille proprietà delle piante medicinali. È stata la passione di un amico salentino coltivatore diretto di aloe vera e olio di oliva ad aver fatto nascere in lui l’idea di una cosmetica completamente naturale.

Nel 2009 nasce così Kirei, linea cosmetica in grado di rigenerare il corpo e rasserenare la mente, grazie ad una serie di prodotti realizzati a partire da questi due ingredienti dalle proprietà sorprendenti, aloe vera e olio di oliva, sapientemente uniti alle più apprezzate erbe medicinali.
L’idea di Tullio, e dell’amico e socio in affari Massimo Fioriello, diventa realtà grazie a Barbara Garbarino, erborista con esperienza ventennale, che seleziona gli ingredienti bio e segue il processo di produzione della linea cosmetica KIREI.

“Nella natura tutto il mondo è una farmacia che non possiede neppure un tetto”: l’aforisma di Paracelso coniuga perfettamente la filosofia del mondo Kirei. “Come in farmacia troviamo i rimedi della scienza – ci racconta Tullio – noi riscopriamo e proponiamo i rimedi che la natura da sempre mette a nostra disposizione. Dedicheremo più tempo alla cura, ma potremo dire addio agli effetti collaterali e lavorare non solo per la guarigione ma anche per il mantenimento della nostra salute”.

BioKirei 2 BioKirei 3 BioKirei 4 BioKirei 5 BioKirei 6 BioKirei 7 BioKirei 8 BioKirei 1

Grazie a questa filosofia Kirei è cresciuta moltissimo negli anni, ma Tullio non si è fermato qui. Nel 2014 crea Biokirei, uno store online multibrand che offre prodotti erboristici, cosmetici naturali e biologici, integratori vegetali innovativi, alimenti bio ed articoli ecologici per l’igiene della casa. E nel 2017, a supporto del web, apre un negozio Biokirei a Clusone, un luogo dove poter entrare in contatto con le persone e far toccare loro con mano i benefici dei suoi prodotti.

“Il nostro impegno vuole essere anche quello di sensibilizzare il grande pubblico all’importanza del benessere – ci spiega Tullio – perché la maggior parte delle persone non conosce veramente i prodotti che utilizza quotidianamente e le conseguenze che possono avere sul loro benessere interiore. Non capisce che la cura interna passa prima di tutto dall’esterno e, quindi, anche dai prodotti cosmetici”.

Un’opera di sensibilizzazione che viene portata avanti anche grazie a una serie di eventi organizzati nel negozio Biokirei, che hanno visto la partecipazione di diverse figure professionali legate al benessere naturale, come quella del naturopata, del dietista o dell’iridologa, che, attraverso la lettura dell’iride, riesce ad individuare i problemi fisici di cui una persona può soffrire.

Il successo dei prodotti Kirei e del portale Biokirei è frutto di un modello di business che sfrutta diversi canali ma anche di un uso sapiente della comunicazione social, soprattutto dei blog. “I blogger – ci spiega Tullio – hanno un grande valore strategico per la nostra attività. Testano i nostri prodotti, ne parlano sui loro blog e ci fanno pubblicità. Per noi è una visibilità importante che ci permette di raggiungere migliaia di persone in tutto il mondo”.

Logo BioKIREI

Non solo lungimirante idea imprenditoriale ed efficace modello di business: se il brand ha raggiunto questo successo negli anni il merito è anche dello staff di Kirei. Ci tiene molto a sottolinearlo Tullio: “Un grande successo si ottiene sempre grazie a un grande team. Senza la passione che quotidianamente mettono nel lavoro il mio socio Massimo, le ragazze che lavorano in ufficio e in negozio e la nostra esperta erborista Barbara, tutto questo non sarebbe stato possibile”.

Nonostante il mondo Kirei abbia raggiunto velocemente il mercato nazionale, continua ad avere sede e contatto diretto con il pubblico in ValSeriana. Perché? “Qui sono nato e qui ci sarà sempre una parte del mio cuore. Viaggio molto per lavoro e ho la fortuna di vedere posti bellissimi, ma dopo un po’ la mia valle mi manca – ammette Tullio – In ValSeriana si sta bene, c’è tutto quello che si può desiderare. Appena posso mi concedo una passeggiata in Val di Scalve, che credo sia meravigliosa, selvaggia e tutta da scoprire. Penso che bisogna credere nel territorio e io ci credo, per questo ho voluto investire qui e sono contento della mia scelta”.

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