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Questione d’amore

L’alpinista Mario Curnis, dalla ValSeriana alle vette del mondo: un “dilettante” d’alta quota. Con un fischietto in tasca.

«Ho sempre amato la montagna perché la montagna per me è la libertà».
Mario Curnis parla seduto a questo tavolo di trattoria, pochi giorni prima del secondo lockdown di un tribolato 2020, che per fortuna è un parente povero del primo. La tragedia di marzo non si ripeterà nelle nostre valli. Curnis è uno dei più importanti alpinisti bergamaschi, è nato a Nembro 84 anni fa, appartiene alla vecchia guardia, non tanto per questioni anagrafiche quanto per il modo di intendere la montagna.

ALPINISTA PER VOCAZIONE

Curnis è sempre stato un dilettante, non ha mai accettato l’aiuto di sponsor, non ha mai fatto dell’alpinismo il suo lavoro. Un dilettante nel senso migliore del termine: l’alpinismo lo ha sempre vissuto per vocazione, per diletto. Nella vita, per tirare avanti, Curnis ha fatto il muratore, l’impresario edile. Con il suo lavoro finanziava le spedizioni in Himalaya, in America Latina, nei luoghi più distanti e impervi della Terra. Le preparava in casa, minuziosamente. Allestiva tende e campi in sala.

Mario Curnis – ph. Matteo Zanga

Curnis, perché la montagna?
«Ho sempre sognato due cose nella vita: la montagna e la libertà, cioè la possibilità di pensare e di fare quello che decidevo. In montagna la mia libertà si realizzava, mi sentivo libero di salire, di scendere, libero di decidere dove andare, di affrontare la sfida della cima oppure no, senza rendere conto a nessuno se non a me stesso. Ma con grande scrupolo».

Che cosa è la montagna?
«Potrei ripetere che per me è la libertà, una libertà profonda, che ha a che vedere con qualcosa di difficile, che non si conosce, magari di misterioso. Il bello della montagna non è tanto che faccio una parete difficile, supero un problema tecnico e nemmeno che arrivo in cima e guardo il mondo sotto. Il bello è quello che ho trovato dentro di me. Non ho mai provato un senso di conquista, no».

Curnis e Moro in una foto d’archivio

Lei ha conquistato l’Everest a 64 anni, un record. Che cosa ha provato?
«Quando siamo arrivati in cima, io e Simone Moro ci siamo stretti la mano, è stato il momento più bello. Nient’altro. In realtà quello che conta è tutto quello che provo, che penso mentre salgo, mentre guardo la roccia, mentre mi arrampico, mentre sento la neve, il gelo, mentre monto la tenda… fino alla cima».

Ha sempre finanziato le sue spedizioni di tasca propria…
«Sì, anche questo significa essere libero. Non dovevo niente a nessuno, non dovevo portare a casa risultati strabilianti per fare contento lo sponsor. Ne ho visti morire tanti di amici alpinisti che hanno fatto cose che in quei momenti si sarebbero dovute evitare, rinviare. Credo che anche per questo sono ancora vivo. E per mia moglie».

Ci spieghi.
«Mia moglie Rosanna è l’unica morosa che ho avuto, io pensavo soltanto al lavoro e alla montagna. Lei aveva vent’anni, io trentaquattro, cinquant’anni fa. Voleva diventare la mia donna, io le ho detto: “Guarda che io non smetterò mai di andare in montagna ». Lei mi ha rispettato e anche a lei devo il fatto di essere vivo».

Perché?
«Perché la moglie di ogni alpinista è importante; quando partivo per una spedizione non sapevo se sarei ritornato e per mia moglie era lo stesso. Ma non mi ha mai ostacolato, sono sempre partito tranquillo. E la tranquillità per un alpinista è fondamentale. Se non sei rilassato al cento per cento, se hai problemi in famiglia, tutto diventa più difficile. Pericoloso. Quando abbiamo avuto il nostro primo figlio, Antonio, io ero sul Lhotse, era il 1975. Lei sapeva che per me era una spedizione molto importante, che ci tenevo tanto. Mi ha detto di andare via tranquillo, pur sapendo che sarei tornato, se tutto fosse andato bene, quando il bambino avrebbe avuto già due mesi. Non è stato facile per lei, allora non c’erano computer e telefonini… Io le sono tanto grato».

L’alpinismo per lei è stato anche un impegno economico. Che cosa diceva sua moglie?
«Una spedizione mi costava cento milioni di lire, potevamo comperare un appartamento. Rosanna ha accettato anche questo».

Lei ha partecipato a spedizioni con Messner.
«Sì, al Lhotse c’era anche lui. Quando nacque Antonio fu lui che arrivò al campo sventolando un foglietto… era il telegramma di mia moglie, arrivava un mese dopo che l’aveva spedito. Io ero un orso, i compagni mi chiamavano proprio così. Ma quella volta, in Nepal, Cassin mi convinse a comperare una pelliccia da regalare a mia moglie».

Che tipo è Messner?
«Un uomo di particolare valore, intelligente. Avrebbe fatto bene qualsiasi cosa avesse scelto nella vita».

È vero che lei tiene un diario?
«Sì, sempre, scrivo molto. È importante scrivere i diari, bisogna annotare quello che succede nella vita, quello che si pensa. A volte li rileggo e mi sorprendo di avere avuto certi pensieri. Lo faceva anche mio padre, ma un giorno li mise tutti nella carriola e andò a bruciarli, tutti. Mia madre ci rimase molto male. Quando vide che anche io tenevo il diario, mi chiese di non fare come mio padre. Penso che io non li brucerò».

Lei partecipò alla prima famosa spedizione italiana all’Everest organizzata con l’appoggio dell’esercito, nel 1973.
«Sì, con tanto di aerei Hercules, una cosa enorme. Ma io non arrivai in cima, mi fermarono a 7.900 metri. Avevo litigato con il patron dell’iniziativa, il famoso conte Guido Monzino, un uomo ricchissimo a cui tutti obbedivano ciecamente, ma in maniera ipocrita. Ma io no e lo criticai apertamente, questo non venne molto apprezzato».

Nel 2011 lei si ritirò dal mondo, andò sul colle sopra Rovetta ad allevare capre.
«Ci rimasi per un anno. Dovevo ricostruirmi dentro; il fallimento della mia impresa edile era stato un colpo durissimo per me. Dal punto di vista economico ero distrutto, non avevo più niente, ma non era tanto questo che mi faceva male. Caddi in una depressione e in quel periodo soffrii anche di tumore alla prostata, un tumore aggressivo. Non ne sapevo niente delle capre che erano di mio cognato: lui non riusciva più a occuparsene. Fu così che mi offrii e pian piano imparai. Mia moglie veniva a trovarmi tutte le settimane, camminava un’ora per arrivare e piangeva quando andava via.
Avevo cinquanta capretti, a un certo punto, e le capre non avevano latte sufficiente allora glielo davo io con il biberon. Ho avvertito quanto quegli animali mi volessero bene e questo mi ha aiutato tanto. Un anno lassù e mi sono rialzato. Il tumore è scomparso, per sicurezza ho fatto soltanto un ciclo di radioterapia alla Gavazzeni, una volta sceso. E sa che cosa penso? Che se fossi rimasto lassù con le capre forse oggi sarei ancora più felice»

Lei fece anche una seconda spedizione all’Everest.
«Sì, ma date le condizioni capii che non si poteva andare oltre quota ottomila. È stata una cosa molto brutta, arrivai su all’ultimo campo, dissi ai due miei compagni di tornare giù ma loro non mi ascoltavano, sembrava non si rendessero conto. Tirai fuori il cartoncino che si tiene in tasca quando si va alle alte quote, con delle semplici operazioni aritmetiche e i risultati: ti serve per capire se ci sei ancora con la testa. Ero ancora a posto. Tentai di convincerli e poi scesi, andai giù dal canalone di ghiaccio vivo. Uno dei due compagni non ce la fece».

Lei ha compiuto imprese invernali da record, per esempio ha fatto lo Scudo del Paine in Patagonia. Ed era stato il primo a fare la Nord dell’Adamello in inverno nel 1963 e finì sui giornali.
«Sì e mio padre commentò a chi gli fece notare che suo figlio era sui giornali: “Be’, un bambo en famea an ghé l’ha toccˮ»

Che consiglio dà a chi va in montagna?
«Non andare mai soli, mai. Anche se si va a fare il solito sentiero che si conosce. In montagna basta niente, scivoli, ti rompi una gamba e poi quando ti trovano? No, sempre in due. E se vai a fare il giro dietro casa portati sempre un fischietto, può essere meglio del cellulare per chiamare i soccorsi. Un’altra cosa: in montagna bisogna restare sempre concentrati. Quanta gente ho visto morire nei tratti più facili, magari quando erano ormai a due passi dalla fine del sentiero. Non bisogna mai sottovalutare la montagna, nemmeno il sentiero più semplice».

 

 

Articolo di Paolo Aresi Per VALSeriana & Scalve Magazine